Ghedini: “Processo Ruby non valido, a quell’ora non ero l’avvocato di Berlusconi”

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 8 Giugno 2011 - 15:45 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Chi è l’avvocato di Berlusconi? Alzi la mano chi non conosce la risposta a questa domanda. I più informati obietteranno che il Cavaliere si avvale dei servigi di più di un avvocato e che anzi, gli storici difensori del presidente del consiglio sono due, e uno dei due risponde al nome di Pietro Longo. Ma l’avvocato “principe” di Berlusconi è uno: Niccolò Ghedini. Così celebre da essere stato eletto in Parlamento, col Pdl ovviamente, e così celebre da essersi anche meritato più di un’imitazione in tv. Non esattamente quello che si definisce un azzeccagarbugli di campagna. Ghedini e il premier poi, come è noto ed evidente, non sono semplicemente difensore e assistito. Hanno, i due, anche un rapporto politico che li lega molto strettamente, Ghedini consiglia quasi sempre il presidente del consiglio sulle questioni-giustizia, e, presumibilmente, vista la lunga data della loro conoscenza, un rapporto umano  “amicale”. Tutto questo è di assoluto pubblico dominio ma, ascoltando l’eccezione presentata in tribunale al processo Ruby dal duo Ghedini/Longo, non vale e non basta. Non basta che la polizia abbia consegnato nelle mani di Ghedini il 14 gennaio scorso la notifica dell’invito a comparire per Berlusconi. La notifica andava consegnata nelle mani del premier direttamente o a un suo convivente o, al massimo, al portiere. Le legge è legge. Per i difensori del cavaliere il processo è tutto da rifare.

Tutto il processo sarebbe nullo perché Ghedini, che il 14 gennaio in via del Plebiscito nella dimora romana dell’allora indisponibile premier aveva ricevuto in mano da due poliziotti la notifica dell’invito a comparire per Berlusconi, aveva sì formale nomina di difensore dal premier ed era stato sì eletto da Berlusconi quale avvocato domiciliatario nel suo studio legale a Padova per tutte le comunicazioni del procedimento, ma a quell’ora l’elezione di domicilio non aveva ancora efficacia, non potendo ancora essere pervenuta all’autorità giudiziaria (come vuole la legge con comunicazioni formali scritte) in quanto appena consegnata dall’avvocato ai poliziotti mandati dai pm milanesi. Dunque, in quell’istante, Ghedini formalmente non rivestiva ancora la qualifica di domiciliatario di Berlusconi, necessaria per poter ricevere l’invito a comparire che avrebbe invece dovuto essere notificato a mano a Berlusconi, non essendo Ghedini né «convivente» né «portiere» del premier (le uniche due altre figure ammesse dalla legge). Con l’esito paradossale che, nonostante il videomessaggio di Berlusconi il 16 gennaio renda alquanto arduo sostenere che egli non avesse avuto cognizione dell’invito a comparire così vivacemente commentato in tv, proceduralmente la nullità della notifica dell’invito a comparire al premier si tradurrebbe in nullità di tutti gli atti successivi, a cominciare dal decreto che ha disposto il processo con rito immediato.

Questa la tesi sostenuta dai difensori del presidente del consiglio. Tesi sembrerebbe corretta da un punto di vista legale, nonostante la sua evidente cavillosità. Ma tesi che risulta risibile e ridicola se sostenuta fuori da un’aula di tribunale. E che appare quantomeno povera se rappresenta la linea difensiva di un uomo politico, quindi pubblico, che afferma di essere vittima di complotti e ingiurie. Se si è innocenti la logica dice che si dovrebbe aver voglia e interesse a che i fatti vengano accertati. E tesi che, invocando l’applicazione letterale della legge sino all’ultimo cavillo legale, stona con l’antipatia manifesta e di vecchia data che Berlusconi dichiara e dimostra di avere nei confronti dei codici e della magistratura.

Il Tribunale deciderà il 18 luglio su questa e sulle altre 15 eccezioni preliminari illustrate dalla difesa di Berlusconi in 10 ore di due udienze.