ROMA – Non si sono ancora definiti i contorni dell’immaginifico “Job act” col quale Matteo Renzi vuole rivoluzionare la legislazione sul lavoro, ma intanto non è scontato che tutto il suo partito abbia voglia di seguirlo su una strada che potrebbe portare il neo eletto segretario del Pd allo scontro frontale con la Cgil.
Dalla Cgil proviene la senatrice pd Maria Grazia Gatti, che si è dimessa dalla commissione Lavoro, ovvero da quella sede parlamentare dove il “job act” dovrebbe essere elaborato.
Wanda Marra del Fatto quotidiano ha raccolto le perplessità della Gatti:
“Non sono d’accordo con la proposta politica di Renzi. Non condivido la genericità delle posizioni sul lavoro”. […] I mugugni, i paletti, l’opposizione annunciate rispetto all’annunciata rivoluzione del mondo del lavoro da parte del segretario in questi giorni sono stati molti. Per ora però solo nell’ambito delle dichiarazioni di guerra: quello della Gatti è il primo gesto formale. […] E l’idea di un contratto senza articolo 18 fa alzare barricate universali. “È solo creando lavoro che si rimettono in moto domanda interna, produzione e crescita”, spiega la Gatti. La quale poi chiarisce: “Renzi ha stravinto. Ed è giusto che chi ha vinto governi”. Perché, “il mio è un ruolo non tecnico, ma politico, e preferisco avere le mani libere per lavorare in minoranza”. Una tesi interessante, visto che a Montecitorio per esempio c’è un capogruppo Roberto Speranza, bersaniano doc, che alle dimissioni non sembra pensare affatto.
Ma cosa c’è dentro il Job Act, al momento?
“Le linee guida note sono sussidio di disoccupazione per tutti, legge sulla rappresentanza sindacale, centri per l’impiego e soprattutto un contratto unico. Ovvero, nelle intenzioni di Renzi, un contratto per i neo assunti con tutele crescenti, e flessibilità in uscita. Così la spiegava domenica sera da Fazio: “Fatto un periodo di prova, hai un contratto di lavoro a tempo indeterminato, quindi hai flessibilità in entrata. Ma ci vuole maggior flessibilità anche in uscita, nel caso un’azienda sia in difficoltà. Lo Stato però deve farsi carico della situazione, con un sussidio di disoccupazione per due anni”.
Formulazione sufficientemente generica per permettere al segretario e a chi sta scrivendo il piano (Filippo Taddei, responsabile Economia del Pd, Marianna Madia, responsabile Lavoro e il consigliere economico, Yoram Gutgeld) di trattare dentro il partito e di capire fino a che punto si può andare allo scontro con la Cgil. Tra l’altro lo stesso Enrico Letta ha in mente un suo piano per il lavoro, e su questioni come contratto unico e indennità di disoccupazione per tutti ha idee non coincidenti con quella di Renzi.
Mancano le certezze e mancano le coperture:
Chi pagherà le politiche attive del lavoro? Risponde Gutgeld: “Le aziende già pagano molto per coprire Aspi e Cig”. Ma qui si parla di sussidio di disoccupazione per tutti. “Dobbiamo fare i conti”. La Madia taglia corto: “Non parlo di lavoro. Un piano ancora non c’è”. Lo stesso Renzi ha notevolmente aggiustato il tiro rispetto alle dichiarazioni di rottura della campagna congressuale, in cui invitava a non considerare un tabù l’articolo 18. In occasione della presentazione del libro di Vespa: “Non ci sto a star dietro al totem ideologico dell’articolo 18”. Ha chiaro che se si parte da qui non si arriva lontano. Matteo Orfini, il leader dei Giovani Turchi, ha già pronto una sorta di contro Job Act, al quale stanno lavorando le parlamentari Valentina Paris e Chiara Gribaudo. “Servono investimenti per creare lavoro nei settori a più alto tasso di occupazione: ricerca, turismo, cultura. Poi la messa in sicurezza del territorio, il welfare sociale”. Chi paga tutto questo? “O il Pil senza sforare il 3 per cento si fissa un po’ sopra il 2,5 oppure si agisce sulla leva fiscale, facendo pagare chi ha di più”.
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