Jobs act, chi lo vota ma non lo applica. L’Espresso: “I portaborse pagati in nero”

Jobs act, chi lo vota ma non lo applica. L'Espresso: "I portaborse pagati in nero"
Jobs act, chi lo vota ma non lo applica. L’Espresso: “I portaborse pagati in nero”

ROMA – Jobs act, chi lo vota ma non lo applica. L’Espresso: “I portaborse pagati in nero”. Contratto a tutele crescenti per i nuovi occupati e per offrire più garanzie ai precari, volgarmente detto jobs act, con inglesismo inventato: in Parlamento è stato votato da una maggioranza che però non trova riscontro pratico in loco, visto che, per esempio alla Camera, dei 301 deputati del Pd solo 14 lo hanno utilizzato per contrattualizzare i collaboratori, volgarmente detti portaborse.

Preferiscono (non solo i parlamentari del Pd) i cari vecchi co.co.co, o più semplicemente metodi non legali, volgarmente pagamenti “in nero”. Un’inchiesta de L’Espresso (“L’onorevole paga il portaborse in nero”) accende un faro su certe pratiche, per esempio sul sistema “prendi uno, intaschi due”: per ricevere il “rimborso spese per l’esercizio del mandato” (3.690 euro al mese esentasse per i deputati e 4.180 per i senatori) che serve a pagare collaboratori e consulenze, è sufficiente rendicontare la metà delle spese.

Il contratto a tutele crescenti è il preferito dai diretti interessati, perché dà maggiori diritti ma essendo più oneroso non ha avuto fortuna: su 902 portaborse, solo 92 ce l’hanno. Con un paradosso doppio: fra i contrari alla provvedimento c’è chi l’ha usato, i favorevoli assai meno. Nel 2015 il gruppo M5S a Montecitorio ha stabilizzato 25 dipendenti, suscitando l’ironia del Pd per via delle critiche grilline. Eppure solo 18 deputati fra coloro che hanno votato la legge poi hanno applicato il Jobs act ai loro assistenti. Tutti gli altri, che in pubblico l’hanno sostenuto, in privato si sono rifiutati di applicarlo. Oppure hanno recalcitrato, come racconta una collaboratrice che chiede l’anonimato temendo ritorsioni: «Ho dovuto insistere per passare dal cocopro all’indeterminato, anche se il mio parlamentare aveva votato la riforma. Se non sono costretti, tutti guardano solo la forma contrattuale più conveniente dal punto di vista contributivo». (L’Espresso)

Qualche parlamentare ha sì trasformato la collaborazione in un contratto a tempo indeterminato ma part time, nonostante l’impegno full time richiesto, lucrando fra l’altro con gli sgravi fiscali previsti. La fantasia certo non manca, specie a chi alla Camera come al Senato conosce a menadito ogni scappatoia funzionale all’intangibilità del suo tesoretto personale (pagato da tutti).

Per avvalersi delle agevolazioni previste per particolari categorie di neo-assunti c’è chi ha aperto ditte individuali o posizioni Inps e Inail come lavoratori autonomi. Qualcuno col cambio di contratto ci ha perfino rimesso, grazie a un’altra furbizia dell’onorevole di turno: lasciare inalterato il lordo ma col risultato di un netto più basso per effetto delle ritenute. E c’è pure chi l’impiego lo ha perso, come il collaboratore del Cinque stelle Massimo De Rosa. Invece di trasformare il contratto a progetto, come prevede la nuova legge, il deputato ha dato il benservito all’assistente, che gli ha fatto causa chiedendo oltre 20 mila euro fra differenze retributive, tfr e mancato preavviso e ha perfino prodotto una mail che dimostrava un tentativo di fargli firmare una lettera di dimissioni in bianco. (L’Espresso)

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