Legge bavaglio 2013. On line colpito, multe salate, carcere no (nessuno ci va)

Legge bavaglio 2013. On line colpito, multe salate, carcere no
Foto LaPresse

ROMA – La nuova proposta di legge bavaglio, versione 2013, elimina il carcere come pena per la diffamazione e ha il merito di allineare l’Italia al mondo occidentale, ma lo fa all’italiana, a metà: non si va più in galera per avere diffamato qualcuno, ma il reato penale resta e il carcere viene sostituito da una multa che al minimo è di 5 mila euro, ma può arrivare a 60 mila, pari a quasi tre anni di stipendio per molti giovani giornalisti oggi in Italia e può arrivare a 60 mila, che i singoli giornalisti condannati dovranno pagare di tasca loro.

In 60 anni di repubblica il numero dei giornalisti fisicamente finiti in carcere per diffamazione è inferiore alle dita di una mano. Invece i casi di condanna sono tanti e le nuove norme aumentano le pene in modo significativo.

Quello che i politici con una mano ti danno, con l’altra ti tolgono, con una aggiunta a loro favore.

La legge è in via di formazione. La Commissione giustizia della Camera è partita da un disegno di legge del deputato Enrico Costa, del Pdl, ha shakerato con altre idee di altri deputati di Pdl e Lega, uno schizzo di limone del Movimento 5 Stelle e, con il contributo finale del Pd e del Governo ha prodotto un testo che aspetta l’esame della Assemblea della Camera e poi il passaggio al Senato.

Certo le idee di alcuni deputati erano ancor più rigide, incluso un aumento di pena se il diffamato apparteneva alla autorità costituita. Che un disegno simile accomunasse parlamentari del cosiddetto Popolo della Libertà (ma non di stampa) e del Movimento 5 Stelle rende l’idea di quanto sia radicata in Italia la concezione sabaudo – borbonica del potere politico non come servizio dei cittadini ma come privilegio.

Gli ultimi vent’anni, e la colpa non è solo di Berlusconi, hanno visto un peggioramento del quadro: una volta la giurisprudenza imponeva a chi era in posizione di potere l’onere della prova, oggi basta leggere per capire che la situazione si è capovolta.

Nel testo prodotto dalla Commissione giustizia della Camera, la diffamazione resta un reato, solo che la pena della reclusione è sostituita con una multa.

Lo scopo della legge non è di fare un passo avanti sul piano della libertà di opinione e di informazione. Altrimenti sarebbe stata affrontata un’altra vergogna italiana, quella del vilipendio.

Sarebbe semplicemente stato cancellato ogni reato di opinione, lasciando ai Tribunali civili l’accertamento del danno e la definizione del suo compenso.

Sempre le cose a metà: ti evito il rischio seppur remoto di carcere, ma ti tengo sempre sotto tiro, non si sa mai.

Il delitto d’onore è duro a morire.

Nella realtà, sembra lecito affermare che i deputati del Pdl si sono mobilitati per evitare che vada in galera Giorgio Mulé, direttore di Panorama, per una condanna che dovrebbe dare i brividi a tutti i giornalisti, anche a quanti pensano che Berlusconi incarni il male assoluto.

Giorgio Mulé non ha fatto di sé un caso politico nazionale come fece Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, sempre di Berlusconi (fratello), i giornali se ne sono occupati quasi per nulla e non c’è stato lo psicodramma nazionale di qualche mese fa.

Anche allora, stessa situazione: per salvare Sallusti dal carcere venivano proposte norme liberticide. Infatti poi l’iniziativa decadde e Sallusti si salvò in altro modo.

Ma Mulé, come le centinaia di giornalisti potenzialmente a rischio, non è meno di Sallusti e merita altrettanta tutela.

Nobile intenzione dunque, da parte dei deputati del Pdl, esattamente come fu ai tempi del caso Sallusti. Ma i politici hanno colto l’occasione, ora come allora, per girare le cose a loro vantaggio.

Vale la pena di ricordare che non si tratta che degli ultimi tentativi di tenere un po’ meglio al guinzaglio la stampa in Italia: l’inizio fu ai tempi del Governo Prodi e ci salvò la sua caduta, con nuove elezioni, perché altrimenti era cosa già fatta, il ddl era già stato approvato dalla Camera, nella entusiasta adesione di tutti i partiti, Verdi inclusi.

Ci salvò anche l’arroganza di Berlusconi, che riprese l’idea di Prodi ma ci volle mettere del suo per dare un segno più profondo, cercando di limitare ancor più le intercettazioni: difesa degli interessi dei Pm e odio per Berlusconi scatenarono la bagarre.

Alla fine anche questo progetto si arenò.

Ma la condanna di giornalisti del campo di Berlusconi ha rimesso sul tavolo il problema. Questa volta le intenzioni dei politici sono meno ampie e brutali, ma non c’è da stare allegri.

La proposta di legge prodotta il 26 luglio 2013 dalla Commissione non è molto diversa da quella elaborata al tempo di Sallusti, solo che in queste settimane ben altri temi dominano l’attenzione dei giornali, il caldo rende tutti più fiacchi e poi qualcuno addirittura sembra rimpiangere il carcere, come chi ha scritto:

“Quando passerà, se mai passerà, la nuova legge sulla diffamazione, le “macchine del fango” saranno punite con una multa da 20 a 60mila euro”

e non è un politico ad averlo scritto ma una giornalista che si presume di sinistra.

I punti chiave della nuova legge sono diversi, non tutti perniciosi, alcuni un po’ incomprensibili.

1. L’obbligo di rettifica: esiste già, fin dal 1948. Quasi sempre i giornali non lo hanno rispettato, anche perché l’autore della smentita è ovviamente quello cui la notizia ha dato fastidio. I giornali quando hanno pubblicato una smentita, lo hanno fatto con criterio, valutando se c’era stato errore o inesattezza nell’articolo contestato e spesso facendo seguire la rettifica da un commento in cui l’autore dell’articolo replicava.

Sarà interessante vedere come agirà Massimo Mucchetti, ora che è senatore, che di casi del genere, da vice direttore del Corriere dell Sera e da vice direttore dell’Espresso, fu protagonista e con onore: con la nuova legge, se andrà in fondo, la rettifica dovrà essere pubblicata “senza commento”.

2. La situazione è più pasticciata per i giornali on line. Qui c’è tutto uno schieramento che vuole tenere distinti i blog dalle altre testate on line, quelle registrate secondo la legge. È un po’ come dire se la tua barca, anche un gozzetto di sei metri, batte bandiera italiana ti controllo se batti bandiera estera no e che è un concetto un po’ difficile da capire perché una notizia falsa e infamante scritta da un blog con poche centinaia o migliaia di lettori non sia meno disonorante di una scritta da un grande sito. La rete è come un flipper, scrivi lì e rimbalza là con dei confini difficili da definire.

E poi, il blog di Beppe Grillo dove si colloca? Se non è una testata ai sensi di legge, non è soggetto a obbligo alcuno ma confrontare il blog di Beppe Grillo con il mitico piccolo blog monoredattore è un po’ una bestemmia.

Secondo Alexa.com, un sito americano che mette in classifica i siti internet di tutto il mondo, il blog di Beppe Grillo è al posto numero 162 in Italia, mentre il sito Dagospia.com, paradigma dei siti di informazione non emanazione di quotidiani, è solo al posto 314.

Per i giornali on line, tra i quali indegnamente si colloca Blitzquotidiano, gli obblighi sono ancora più stringenti che per i grandi quotidiani su carta:

“Le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate non oltre due giorni dalla ricezione della richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono, nonché in testa alla pagina dell’articolo contenente la notizia cui si riferiscono, senza modificarne la URL, e con caratteristiche grafiche che rendano evidente l’avvenuta modifica».

Poco importa se il giornale ha scritto il vero e chi smentisce sostiene il falso: devi pubblicare entro due giorni, mettere la smentita sopra la notizia e se non lo fai ti condannano a pagare da 8 a 16 mila euro. Per Repubblica o il Corriere della Sera, anche di questi tempi, sono inezie, hanno fondi di milioni per queste cose, ma per un sito come questo bastano poche condanne per farti chiudere.

3. Bastone e carota: c’è un effetto riduttivo della rettifica ai fini del danno (art. 11 bis, risarcimento del danno); se pubblichi la rettifica non sei punibile (art. 13, 3).

4. La pena della diffamazione. Non c’è più il carcere, da uno a sei anni e una multa “non inferiore a lire 500.000”: ci dovrebbe essere una multa da 5 a 10 mila euro. C’è poi un gradino successivo, dove tutto finisce nella discrezionalità del giudice, cosa che in materia di opinioni è, appunto, materia di opinione, “se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità”.

Qui entra in ballo, in un reato d’opinione, l’opinione del giudice: come si può accertare, al di là di ogni dubbio se io ero o non ero consapevole del fatto che la notizia era falsa?

In questo caso, comunque,  la multa va da 20.000 euro a 60.000 euro.

Sono cifre importanti, perché equivalgono, di questi tempi, alla forcella entro cui si muovono gli stipendi netti di un anno della maggior parte dei giornalisti.

5. Ci sono poi due ipotesi di norma che tradiscono l’accanimento dei politici autori della legge.

In caso di recidiva, c’è la pena accessoria della sospensione dalla professione da uno a 6 mesi, periodo in cui il giornalista rimane quindi senza lavoro e stipendio.

In ogni caso, in caso di condanna, il giudice passa gli atti all’Ordine dei giornalisti “per le determinazioni relative sulle sanzioni disciplinari”.

Mussolini non era arrivato a tanto.

6. Ancora la carota:

1. la pena accessoria della sospensione dall’Ordine non si applica al direttore

2. il direttore può delegare, con atto scritto avente data certa ed accettato dal delegato, le funzioni di controllo ad uno o più giornalisti professionisti idonei a svolgere le funzioni di vigilanza. I politici vogliono tenere conto della complessità della organizzazione giornalistica oggi, ma non mollano sul fatto che vogliono un’altra testa, oltre a quella dell’autore.

3. in caso di causa temeraria, “il giudice può condannare il querelante al pagamento di una somma da 1.000 euro a 10.000 euro in favore della cassa delle ammende”. Per colossi che hanno il vizio della querela facile (o della causa da milioni) sono spiccioli ben spesi e l’effetto intimidatorio è assicurato.

In tutta questa vicenda, chi ha deluso non poco è Beppe Grillo che ha perso una occasione per lasciare un segno in tema di libertà. I suoi si sono battuti per escludere i blog dai nuovi obblighi, ma è lecito il sospetto che ci sia più che un conflitto una coincidenza di interessi.

Per il resto, in materia di libertà di stampa, delusione totale. Anzi, c’è di peggio, anche se restiamo convinti che sia letteralmente sfuggito (omesso controllo?) a Beppe Grillo o ai suoi guardiani il testo del disegno di legge di Mirella Liuzzi, deputata a 5 stelle, dove dice:

“Se l’offesa è recata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o a una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.

Beppe Grillo non è proprio genovese, perché viene dall’entroterra, da fuori le mura, però la cultura genovese è libertaria, è contro ogni vincolo e bavaglio alla libertà di espressione. Lo stesso Beppe Grillo in persona ha esteso il concetto agli estremi, tra insulti e invettive. Odia i giornalisti o li disprezza, sentimento condiviso con molti lettori di giornali e molti cittadini, ma nessuno può pensare che li voglia servi. Se è coerente con quel che dice, Beppe Grillo, semmai, dovrebbe volerli più liberi.

Ecco perché dal Movimento 5 Stelle ci si sarebbe aspettati una legge semplice semplice, che eliminava ogni reato di opinione, eliminava il reato di vilipendio, rimetteva al giudice civile la definizione del danno provocato dalla diffamazione.

Invece, la proposta vergognosa riportata sopra viene proprio da una del Movimento che fa capo a Beppe Grillo, il quale ha teorizzato l’abolizione del vilipendio e ha condotto una vigorosa campagna a difesa di 22 suoi sostenitori indagati proprio per vilipendo.

Vogliamo credere che alla povera Mirella Liuzzi qualche funzionario della Camera un po’ ancien régime abbia giocato un brutto tiro  e che lei abbia firmato il disegno di legge a sua insaputa.

 Legge bavaglio 2013. Testo Commissione Giustizia Camera e ddl Costa

Legge bavaglio 2013. Le leggi sulla Stampa oggi in vigore

 

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