Elezioni, si vota, ci si candida. In M5S vige la regola che ci si può, anzi quasi ci si deve, autocandidare. La volta scorsa, nel 2018, autocandidarsi fu spesso insieme impegno civile e insperata fortuna privata. Autocandidature divennero candidature reali e poi reali seggi in Parlamento avendo alle spalle il sostegno inziale di una chat, anzi talvolta meno. Si diventò parlamentari avendo il sostegno numerico che si può raggiungere in una assemblea di condominio. I condomini di un paio di palazzine e l’autocandidato/a diventò spesso portavoce in Parlamento. Ci riuscirono in circa 350, poi ne rimasero la metà, ma questa è un’altra storia. Era l’onda del popolo indignato, c’era da ribellarsi alla Casta, spirava un’aria, l’aria venne fiutata: cinque anni fa le autocandidature in M5S furono 15 mila.
Meno posti o meno indignazione?
Stavolta le autocandidature in M5S sono state circa duemila. Non la metà e neanche un terzo dell’altra volta. Sono state la metà di un terzo di quelle dell’altra volta. Consapevolezza che ci sono meno posti in palio? M5S ha fortemente voluto, anzi di fatti imposto all’ipocrisia populista di tutti gli altri partiti la cancellazione di un terzo dei parlamentari (ci dovevano essere contestualmente la riforma della legge elettorale e dei regolamenti delle Camere per non squilibrare il sistema, mai fatti però). E M5S ha visto calare di due terzi, se non di più, il suo appeal elettorale (sondaggi e anche elezioni reali amministrative).
Quindi posti in palio ridotti, avanti non c’è posto, l’autocandidatura è l’iscrizione ad una lotteria dove sono in molti meno a vincere, è un concorso con troppi candidati rispetto ai posti. Insomma per dirla prosaica e impietosa e perfino irrispettosa: stavolta non c’è trippa per gatti. Oppure, versione più nobile ma non priva di una sua politica drammaticità: il popolo indignato s’è smagrito. O si è trasferito dalla Meloni.