ROMA – Duello in Senato tra il presidente Piero Grasso e il capogruppo M5s Nicola Morra. Duello con oggetto Giorgio Napolitano. Morra lo cita in un discorso e Grasso lo ammonisce e lo censura. Non si nomini Napolitano invano. Il tema trova spazio nei giornali del 20 luglio sia a destra sia a sinistra. Critico con Grasso è soprattutto Marco Travaglio che nel suo quotidiano editoriale sul Fatto scrive, non senza sarcasmo:
Primo comandamento della nuova Monarchia del Napolitanistan: “Non nominare il nome di Napolitano invano, anzi non nominarlo proprio”. L’ha dettato ieri Sua Eccellenza Piero Grasso, il garrulo presidente del Senato, probabilmente in preda ai postumi di un’overdose da caponatina, zittendo il capogruppo di 5Stelle Nicola Morra che aveva osato l’inosabile con questa frase temeraria: “Ieri è intervenuto nel dibattito politico chi sta sul Colle…”. Alla parola “Colle” il solitamente sonnacchioso, ma sempre ridanciano Grasso è scattato come la rana di Galvani: “Non sono ammessi riferimenti al capo dello Stato, lasciamolo fuori da quest’aula”. E quello, recidivo: “Il nostro presidente della Repubblica”.
Ma l’Eccellenza è tornato a monitarlo: “L’ho invitata a lasciarlo fuori. Lei non può citarlo”. Chissà in quale incunabolo il Grasso Ridens ha trovato il divieto di citare il Presidente della Repubblica nell’aula del Parlamento che l’ha eletto: forse negli stessi testi sacri, più misteriosi dei manoscritti di Qumran, che il Presidente consulta prima di dare ordini a governo, Parlamento, partiti, stampa e magistrati. Il guaio è che poco prima il capo dello Stato era stato citato dal presunto premier Letta per fare da scudo al cosiddetto vicepremier Alfano, detto anche l’Estraneo o l’Insaputo perché non sa neppure dov’è Viminale e in attesa che lo scopra il suo ufficio è occupato da diplomatici e funzionari kazaki che ordinano sequestri di donne e bambine. Ma curiosamente, quando il Nipote ha citato il Presidente, Grasso è rimasto dolcemente assopito sullo scranno dorato, con aria beata. Dal che si deduce che il I Comandamento vale solo quando si cita Napolitano per criticarlo: nominarlo per leccarlo si può, anzi si deve. Un po’ come nella tradizione ebraica, che considera la divinità talmente sacra da essere impronunciabile.
Di qui il tetragramma YHVH, innominabile se non nella versione Adonai, peraltro riservata alle preghiere. Ricapitolando: oltreché divino, dunque infallibile, incriticabile, inindagabile, imperseguibile, impunibile, inarrestabile e inintercettabile, anzi diciamo pure inascoltabile anche se parla con un inquisito, Re Giorgio è anche ineffabile. Qualora lo si volesse invocare, purché con la dovuta devozione, il capo coperto o almeno velato, si dovranno usare le consonanti del pentagramma tratto dal codice fiscale: NPLTN. Egli poi effonde le sue taumaturgiche virtù soprannaturali su chi gode della sua sacra protezione rendendolo, per balsamico contagio, egli stesso insindacabile. Per esempio NRC LTT e NGLN LFN. Inutile proporre mozioni di sfiducia o azzardare critiche: santi subito.
Alle disposizioni della nuova teocrazia si erano già attenuti nei loro editoriali di ieri Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica , e Claudio Sardo, affondatore dell’Unità. Essendo critici col vicepremier LFN al punto da ipotizzarne financo le dimissioni, avrebbero dovuto criticare anche NPLTN che le aveva escluse nel Supermonito del Ventaglio, bevendosi le balle di LFN, elogiando il governo LTT per il suo proverbiale “spirito d’iniziativa” e incolpando per l’affare kazako i kazaki. Invece si sono portati avanti col lavoro e NPLTN non l’hanno neppure nominato. Come se non avesse mai parlato. Resta da capire se la curiosa omissione si debba a una loro iniziativa congiunta di autocensura, o a una mossa precauzionale delle rispettive redazioni. Le quali, temendo che i due partissero in quarta contro il Presidente con effetti destabilizzanti sui mercati internazionali, potrebbero aver chiuso il Fondatore e l’Affondatore in una camera iperbarica, privandoli di tutti i canali di approvvigionamento informativo: niente tv, niente web, niente agenzie. E lasciandoli ignari del Supermonito del Ventaglio. Se le cose stessero così, sarebbe auspicabile un nuovo blitz congiunto italo-kazako per liberarli. L’Onu dica qualcosa: Scalfari e Sardo devono sapere.
Duro, contro il presidente del Senato, anche Franco Bechis su Libero che spiega ma allo stesso contesta gli argomenti di Grasso.
Ieri mattina durante il dibattito sulla mozione di sfiducia ad Angelino Alfano per il caso kazako il presidente del Senato, Piero Grasso, per ben cinque volte ha interrotto il capogruppo del Movimento 5 stelle, Nicola Morra, impedendogli di citare parole di Giorgio Napolitano. (…) Una censura mai vista nelle aule parlamentari. I pochi che hanno difeso Grasso dopo l’antipatico scivolone hanno sostenuto che in base all’articolo 90 della Costituzione e ai regolamenti parlamentari il Capo dello Stato è anche politicamente irresponsabile delle sue parole come delle sue azioni, e quindi non si può dibatterne. Quella del corazziere deve essere una vocazione comune, ma la verità è altra: in nessuna parte dei regolamenti parlamentari se ne fa cenno, e i resoconti di Camera e Senato brulicano di ampie citazioni del Capo dello Stato. Per tradizione e scarso coraggio si tratta di gran lodi e genuflessioni. Ma in qualsiasi dibattito c’è chi consente e chi dissente. Solo in regimi autoritari sono ammessi i primi e mai i secondi. Ieri sembrava di trovarsi in un’aula parlamentare del Kazakhstan, non certo dell’Italia. La questione è assai più seria di una banale gaffe da neofita istituzionale, quale Grasso è.Perché ieri alla sua gongolante presenza e presidenza dell’aula il nome di Napolitano è riecheggiato ben 7 volte prima che lo citasse il povero Morra. Sette inchini, ci mancherebbe ! Ma pur sempre sette «vietatissime» citazioni dei discorsi di Napolitano. Una volta Francesco Russo (Pd). Una Giuseppe Esposito (Pdl). Una Anna Maria Bernini (Pdl). Una Stefano Lepri (Pd), una Vannino Chiti (Pd). E ben due citazioni da parte del presidente del Consiglio, Enrico Letta. Consensi ammessi, dissensi no. Una scelta imposta, per questo assai grave. Ma non solitaria: non meno insidiosi sono alcuni riferimenti – più velatialla libertà di espressione rintracciabili nelle parole di alte cariche dello Stato nelle ultime ore.Come l’invito all’autocensura rivolto dallo stesso Napolitano alla stampa «perché la componente della sollecitazione e dell’amplificazione mediatica influenza molto le parole e i comportamenti dei politici». Sollecitazione – fuori luogo – meno grave di quella di Grasso, ma comunque indicativa dell’idea di libertà di espressione che alberga nelle alte sfere della Repubblica. Indiretta la mezza scivolata fatta ieri da Letta in Senato a proposito delle decisioni prese dall’esecutivo su Iva e Imu: «Chi vuole logorare il Governo e il quadro politico li chiama rinvii…». A parte il banale fatto che in questa logica «chi vuole logorare il governo » è il governo stesso, visto che la parola «rinvio» è contenuta in due comunicati ufficiali della presidenza del Consiglio a proposito di quei provvedimenti: uno firmato da Letta, l’altro da Dario Franceschini. Ma quel modo – più politico – di avvertire che se si usano parole o giudizi non graditi è già «macchina del fango», è subdolamente assai più limitativo della libertà di espressione del puro e chiaro divieto di parola. C’è un tema crescente di picconate istituzionali alla libertà di espressione in Italia. Ed è assai serio.
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