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Marò, diplomatici italiani: “Terzi dimettiti da ministro degli Esteri”

di Marco Benedetto |25 Marzo 2013 2:51

Terzi di Sant’Agata: chieste le dimissioni

Le dimissioni del ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata sarebbero una evoluzione nel segno della decenza alla vicenda dei due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, prima mandati in bocca all’ India, poi bloccati qui, ora riconsegnati a un incerto destino.

Ci sarebbe stato anche un sottosegretario agli Esteri, Marta Dassù, a consigliare

“Terzi di dimettersi per evitare di travolgere la diplomazia italiana in una débâcle causata da decisioni politiche”

a quanto riferisce sul Corriere della Sera Maurizio Caprara.

Marta Dassù, precisa Caprara molto bene informato,

” era una delle persone favorevoli in un unico caso a decidere un rifiuto di far partire i marò alla fine del permesso ottenuto: qualora fossero stati arrestati in Italia e processati in Italia”

e questo ora evidentemente le dà titolo per parlare senza remore. Nota ancora Caprara:

“La formazione del governo nei prossimi giorni potrebbe distrarre dal malessere della diplomazia, ma potrebbe accadere il contrario. Non è allegro che martedì uno dei primi atti nel nuovo Parlamento consista nell’ascoltare sui marò le spiegazioni del ministro degli Esteri Terzi e della Difesa Giampaolo Di Paola. Con alle spalle non tanto l’utile ombra del nemico alle porte, spesso abusata in politica per contenere le divergenze, bensì il groviglio di errori italiani. Far partire, non far partire, far partire. Con dichiarazioni su assenza di rischio di pena di morte, con rischio di pena di morte stando al ministro della Giustizia indiano, poi senza secondo quello degli Esteri indiano…”.

Per descrivere il clima che regna nel nostro servizio diplomatico, il Corriere della Sera usa nel titolo un’immagine forte: “Farnesina a pezzi” seguita dalla logica, almeno in altri tempi e in altri Paesi, delle dimissioni di Terzi. Maurizio Caprara elabora:

“Uno stato d’animo che sfiora l’abbattimento”

è, nelle sue parole, quello che domina al Ministero degli Esteri italiano, a Roma, nella sede in puro stile littorio detta Farnesina, costruita per volere di Mussolini ma inaugurata negli anni ’60.

L’abbattimento, secondo Caprara, ha preso il posto dello “stupore” e della “sorpresa” seguiti alla decisione di non rimandare i marò in India,

“una smentita governativa alla parola data alla Corte suprema indiana (su istruzioni da Roma) dal nostro ambasciatore Daniele Mancini”.

Riferisce Caprara il clima del nostro servizio diplomatico: c’è,

“nei corridoi del palazzone bianco del Ministero e nei contatti con le ambasciate d’Italia un’atmosfera di incertezza e frustrazione”.

Nelle parole di un anonimo diplomatico

“c’è malcontento, delusione, costernazione. Perché abbiamo ricevuto un danno alla nostra credibilità e ce lo porteremo sempre dietro. Un diplomatico che ha davanti a sé venti anni di carriera sa che i suoi interlocutori stranieri ricorderanno sempre quel precedente”.

Caprara chiosa, per chi non avesse capito:

“La volta che l’Italia si rimangiò la parola data, annullando la partenza dei marò. Seguita dalla volta nella quale annullò l’impegno con due persone, pur ripristinando il rispetto di un accordo tra Stati”.

Quasi tutti i giornalisti italiani seguono la linea che Latorre e Girone giocassero al tiro al volo in mezzo all’oceano prendendo a bersaglio, come in una nota e crudele barzelletta, dei poveri e innocenti colpevoli solo di avere la pelle scura, senza nemmeno farsi sfiorare dal dubbio che davvero si trattasse sì di pescatori, che però avevano deciso di compiere, spinti da ragioni anche umanamente comprensibili, un atto di pirateria.

Caprara non affronta il dubbio che i pescatori stessero per compiere un atto di pirateria in acque internazionali, ma usa un linguaggio molto equilibrato e guardingo. Il caso, ricorda, è nato

“dalla morte di due pescatori in mare. Non da un’operazione brillante, sebbene la Repubblica Italiana abbia il dovere di rivendicare per se stessa il giudizio sui militari che rischiano la vita per lo Stato”.

 

 

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