Matteo Renzi, tutti i rottamati: Letta, Bersani, Fassina e… Napolitano

Matteo Renzi, tutti i rottamati
Matteo Renzi dopo la direzione Pd (foto Ansa)

ROMA – L’ultimo, in ordine di tempo, è Enrico Letta. L’ultimo di un lungo elenco di rottamati da Matteo Renzi. Perché se almeno a parole, pronunciate e stampate, la “rottamazione” sembra scomparsa dal vocabolario politico del prossimo premier Matteo Renzi, rimane nei fatti. Dove conta di più.

Lo sa bene Enrico Letta. Liquidato in due mesi e cinque giorni, poco più. Renzi ha vinto le primarie l’8 dicembre e lo ha messo alla porta il 13 febbraio. In mezzo una sessantina di giorni fatti di pochissime dichiarazioni rassicuranti e quasi quotidiane bordate a un governo definito ora “immobile”, ora “logorato”, ora “pila scarica”. Più volte Renzi ha detto che serviva un “cambio di passo” ma non un rimpasto. Roba da prima repubblica, spiegava il neo segretario. Che infatti non voleva il rimpasto, non voleva qualche suo fedelissimo a fare il ministro. Voleva il piatto col jackpot e se l’è preso senza troppo curarsi delle elementari regole di partito e di quanto detto fino a una settimana prima.

Sta di fatto che Letta è rottamato sia che accetti qualche ministero sia che scelga, come sembra più naturale, di farsi semplicemente da parte.

Ma cosa sia la rottamazione di Renzi lo sa bene anche Pier Luigi Bersani. Lo ha battuto una volta alle primarie ma poi ha “non vinto” le elezioni. E quella non vittoria con una gestione autolesionista del post voto ha di fatto trasformato quello che per lo zoccolo duro del Pd era uno spauracchio, Renzi, in un’ancora di salvezza. Sta di fatto che il tramonto di Bersani e l’ascesa di Renzi si è consumata con una velocità non ordinaria per i tempi della politica.

Il primo  “rottamato” è stato in qualche modo Pippo Civati. Autorottamato, forse. Sta di fatto che il copyright del termine rottamazione è anche suo. Ma Civati si è defilato quasi subito. Distanza sulle idee ma soprattutto distanza sulla visione del partito. Renzi punta sull’ “one man show”. Civati no.

Poi c’è buona parte del gruppo dirigente del Pd. Qualcuno (da Dario Franceschini a Piero Fassino) è salito sul carro del vincitore ed è in qualche modo ancora in sella. Gli altri sono di fatto fuori dai giochi. Massimo D’Alema si è chiamato fuori, anche per evitare l’umiliazione di una mancata ricandidatura. Sarebbe servita una deroga. Non probabilissima.  Poi c’è “Fassina chi?”, simbolo di quel Pd che con Renzi nulla ha a che fare e che ha lasciato la poltrona da viceministro dell’Economia quando ha capito la malaparata.

Infine il “forse rottamato” più illustre di tutti: Giorgio Napolitano. L’uomo che ha voluto Letta, le larghe intese, la stabilità a tutti i costi. E il presidente che ancora ieri diceva che di elezioni anticipate non se ne parla. Due ore di colloquio con Renzi solo qualche giorno fa: tempo inusuale che fa pensare che non tutto fosse rosa e fiori. E poi dal Portogallo una battuta asciutta: “Tocca al Pd”. Come a dire che questa staffetta non ha esattamente la sua benedizione. E che da questo momento Renzi che la bicicletta ha voluto deve pedalare. Col rischio di rottamarsi da solo.

 

I commenti sono chiusi.

Gestione cookie