Migranti: da Liguria, Lombardia e Veneto no al Piano Nazionale per l'integrazione Migranti: da Liguria, Lombardia e Veneto no al Piano Nazionale per l'integrazione

Migranti: da Liguria, Lombardia e Veneto no al Piano Nazionale per l’integrazione

Migranti: da Liguria, Lombardia e Veneto no al Piano Nazionale per l'integrazione
Migranti: da Liguria, Lombardia e Veneto no al Piano Nazionale per l’integrazione

GENOVA – Tre regioni del Nord Italia dicono no al Piano Nazionale per l’Integrazione dei Migranti. Un piano che il governo puntava a licenziare già la prossima settimana dopo la messa a punto del Ministero del Lavoro, le Regioni Piemonte e Sicilia, l’Anci, l’Ufficio anti-discriminazioni e l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. Ma da Liguria, Lombardia e Veneto arriva un no secco: “Questo documento – sostengono i governatori dell’asse – rende ufficiale la resa dell’Italia di fronte all’invasione di clandestini”.

Ma cosa prevede il Piano? Il Secolo XIX ne riassume in anteprima i punti principali. Ci sono azioni concrete come l’assistenza sanitaria, l’inserimento socio-lavorativo, la formazione linguistica, il ricongiungimento familiare e il riconoscimento dei titoli di studio. Una volta approvato, il Piano diventerebbe vincolante per Regioni e Comuni. Ma il veto di Toti, Maroni e Zaia non basterà a fermarlo, perché non è necessaria l’unanimità.

Come spiega Il Secolo XIX:

Il sistema. Il modello di accoglienza in Italia dovrà diventare unico, quello dello Sprar, con il superamento di altre formule, quali i Cas. Per chi ha poca confidenza con queste sigle, significa che dei migranti sul territorio si dovranno far carico le amministrazioni locali, che così controlleranno le sedi e le modalità dell’accoglienza; dovrà essere superato l’esperienza degli appartamenti presi in affitto dalle prefetture e affidate a coop e ad altri enti di accoglienza.

Il primo approccio. Spiega il documento che «lo strumento cardine per l’integrazione rimane il progetto personalizzato che deve essere impostato, seguito e monitorato per ogni singola persona accolta, da personale specializzato».

La lingua. Bisogna, scrive il documento, partire «includendo l’insegnamento della lingua e l’orientamento culturale sin dall’inizio». Oggi, dopo 4 anni, solo il 56 per cento dei richiedenti asilo parla italiano. Ancora, «prevedere nei bandi per la gestione dei centri di accoglienza figure professionali competenti, qualificate e in grado di lavorare in contesti multiculturali». Occorre «rendere obbligatoria la partecipazione ai corsi di lingua svolti nei centri d’accoglienza».

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