ROMA – Dividi i voti ottenuti fino ad ottenere la frazione minima di un solo consigliere nel parlamentino regionale. Chiama “gruppo” quell’uomo solitario, se è donna fa lo stesso. E moltiplicherai i soldi pubblici che incassi e distribuisci. E’ l’astuta pratica della malapolitica di territorio. Nell’ultima campagna elettorale che si è svolta nel nostro Paese, quella per le Regionali 2010, tutti i partiti e tutti i candidati sembravano essere d’accordo nel ridurre i costi della politica e quasi tutti sembravano uniti nell’elogiare le virtù del bipartitismo contro la frammentazione del sistema politico. Ma si sa, una cosa è la campagna elettorale e altra è la politica vera, ad elezioni finite tutte quelle promesse, tutti quei proclami, sono finiti nel dimenticatoio. Su 200 gruppi parlamentari presenti nei consigli regionali ben sessanta, cioè quasi uno su tre, sono composti da un solo eletto.
I “gruppi” di uno e soltanto uno: in natura e aritmetica non esistono. Ma sono creature tipicamente italiche con un solo componente, naturalmente autoproclamatosi “capogruppo di se stesso”, che tra stipendio maggiorato, benefit, staff e rimborsi vari ci costa centomila euro l’anno. A “gruppo” s’intende. I “monogruppo” sono una realtà assolutamente trasversale e, udite udite, fioccano soprattutto nelle regioni del nord, quelle stesse regioni dove la Lega ha costruito la sua fortuna politica proprio battendosi contro gli sprechi di Roma ladrona e delle regioni del sud. Da un’analisi fatta da La Stampa emerge che il costo totale dei sessanta monogruppi per tutta la legislatura è pari a 30 milioni di euro. Trenta milioni che, essendo soldi pubblici, escono dalle tasche dei cittadini e vengono spesi non per interventi di pubblica utilità, non per la sanità o per migliorare la condizione delle strade, ma vengono invece utilizzati per pagare stipendi e benefit aggiuntivi per la “casta” dei politici locali. Sarà interessante vedere la reazione degli elettori del nord, sostenitori del federalismo, se mai passerà le forche caudine dei decreti attuativi, quando scopriranno che gli sprechi delle loro regioni ritenute virtuose sono persino maggiori del tanto bistrattato meridione.
La scoperta di questi organismi unicellulari avvenne qualche anno fa in Calabria, quando una leggina bipartisan garantì prebende improbabili (da un autista a disposizione a sontuosi uffici sparsi in tutta Reggio Calabria) moltiplicando in breve i monogruppi: 12 su 19 gruppi e 40 consiglieri. Un record che fece indignare Francesco Fortugno, allora semplice consigliere, poi vicepresidente del Consiglio prima di essere ammazzato dalla ‘ndrangheta a Locri, il 16 ottobre 2005. Il 1 marzo 2004 Fortugno depositò una proposta di modifica del regolamento che cominciava così: “La proliferazione dei monogruppi è diventata una vera anomalia Ciò comporta sprechi enormi di risorse”. Quindi li elencava, proponendo di abolire i gruppi con meno di tre consiglieri “fiducioso che prevalgano i colleghi di buona volontà, perché credo che questa situazione per certi versi scandalosa non possa rimanere così più a lungo. I monogruppi sono una brutta pagina, che va cancellata al più presto”.
La Calabria da allora si è emendata. Qualche tempo dopo l’esplosione dello scandalo fu approvata la stretta proposta da Fortugno. I monogruppi, già ridotti a tre nel 2008, oggi sono quasi scomparsi: sopravvive solo la Federazione della Sinistra. Pulizia ancor più energica in Campania, dove la modifica dei requisiti per la costituzione di un gruppo richiede ora almeno cinque componenti (tre se già presente in parlamento). Risultato: monogruppi azzerati. Virtuose anche le Regioni a statuto speciale, zero monogruppi in Sicilia, che però può vantare ben altre voci di sprechi da parte della politica locale, zero in Sardegna e zero in Friuli, Trentino e Valle d’Aosta.
Nelle regioni a statuto ordinario invece la musica è ben diversa. Nel 2005 si contavano 57 monogruppi, due anni dopo erano diventati 75 su 199 gruppi, il 37,7 per cento e, a scanso di luoghi comuni, il boom si concentrava nel Nord, con 36 monogruppi, di cui 10 solo in Veneto. Imbarazzati partiti e monogruppi promisero che sarebbe stato dato un taglio a questa pessima abitudine. Promesse da campagna elettorale. Oggi i monoconsiglieri nelle regioni a statuto ordinario sono 60 su 157 gruppi, il 38,2 per cento. E se Liguria, (2 monogruppi su 10 presenti in Consiglio), Puglia (anche lei 2 su 10) e Toscana (1 su 7), si comportano benino, nelle altre la corsa al monogruppo impazza. In Piemonte (7 su 13), Molise (8 su 14), Basilicata (7 su 11), Abruzzo (6 su 11), Emilia Romagna (6 su 11), Lazio (7 su 16), Umbria (5 su 10) Lombardia (2 su 7), nelle Marche (7 su 13) sono addirittura la maggioranza assoluta. Campioni della “monogruppitalità” sono in Piemonte Mercedes Bresso, esiste infatti il monogruppo “Uniti per Bresso” che è altra cosa dal gruppo “Insieme per Bresso”. Nel Lazio Antonio Paris eletto con la Polverini e rimasto solo. In Umbria Francesco Zaffiri, il più votato del Pdl ma poi abbandonato, o abbandonante? Nelle Marche Gian Mario Spacca che è presidente, consigliere e capogruppo: uno solo per tre cariche e nel Veneto Diego Bottacin, una volta eletto Pd.
Tra indennità addizionale per la gravosità del compito di coordinare il gruppo, cioè se stesso (un migliaio di euro netti al mese oltre allo stipendio da fame che supera i 10 mila euro), uffici, computer, telefoni, auto e accessori vari, segretari e portavoce da assumere discrezionalmente (le regole variano da Regione a Regione ma si arriva fino a sette persone con stipendi da 1000 a 3000 euro circa), budget per “spese di funzionamento” (in genere circa 70 mila euro l’anno) ogni monogruppo pesa sui contribuenti da 100 mila a 150 mila euro l’anno, da 500 mila a 750 mila nella legislatura. Un gruzzolo che costituisce un formidabile incentivo a mettersi in proprio, su questo sono d’accordo veramente tutti, da destra a sinistra e dallo Ionio alle Alpi, con buona pace delle promesse elettorali.