ROMA – Un operaio vota Grillo, poi Pdl e, infine, il Pd che sembra interpretare una politica laburista che non contempla però i lavoratori in carne e ossa. Lo dicono le analisi dei flussi elettorali seguite alle recenti consultazioni: con numeri un po’ diversi tra loro, confermano la disaffezione operaia al centro-sinistra, sia l’osservatorio statistico LaPolis di Ilvo Diamanti, sia l’istituto Ipsos.
Per LaPolis le “tute blu” hanno votato addirittura per il 40% il MoVimento 5 Stelle (29% per Ipsos), per il Pdl il 25,8% (24% per Ipsos), e solo il 21,7% per il centro-sinistra (20% per Ipsos). Scollamenti percentuali a parte, il responso è netto: nel segreto dell’urna un operaio snobba i partiti di sinistra, sua “tradizionale” opzione politica.
Se già con il binomio “tessera Fiom-voto alla Lega” si erano sprecati fiumi d’inchiostro e dotte analisi socio-politiche, l’ultima tornata elettorale ribadisce l’inconsistenza dell’offerta politica Pd, un “laburismo senza operai”, lo definisce Dario Di Vico sul Corriere della Sera del 12 marzo, a commento delle evidenze numeriche scaturite dall’analisi attenta dei comportamenti elettorali categoria per categoria. E il pensiero corre a quel grido di dolore operaio all’Alcoa, dove Bersani fu accolto con un “buffone traditore” davvero poco incoraggiante.
Un fulmine a ciel sereno? Non esattamente, tanto è vero che un’indagine commissionata dal Pd alla società Swg sulla “condizione operaia in Italia” avrebbe dovuto far scattare più di un campanello d’allarme. Quell’indagine mostrava come a giugno 2011, accanto a un 31% di operai fedeli al centro-sinistra, era emerso un blocco maggioritario, intorno al 42%, che non si sentiva rappresentato da nessuno e dichiarava la propria distanza dalla politica in quanto tale.
A posteriori, è facile comprendere dove si sia orientata quella massa critica orfana di rappresentanza: Grillo ha pescato a man bassa in questo bacino, seguito da Berlusconi abile e spregiudicato a smarcarsi in campagna elettorale dal governo delle tasse e dell’austerità. Al Pd, conclude Di Vico è “rimasto in mano il cerino della responsabilità europea. Che evidentemente in fabbrica non suscita grandi applausi.”
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