Un’analisi di Gianluigi Paragone su Libero aiuta a capire i tormenti della Lega degli ultimi mesi, culminati nei fischi a Umberto Bossi in piazza del Duomo a Milano.
Bossi capo carismatico è fuori discussione, ma con tutto il rispetto che profonde verso di lui Paragone, appare ormai come un santino da nominare nelle giaculatorie ma che si vuole estromettere dalla guida operativa politica del partito. Soprattutto, afferma il titolo, “Bossi non può fermare la rifondazione Padana”.
A quel ruolo si è ormai apertamente candidato Roberto Maroni, ex ministro dell’interno, uno dei migliori uomini di governo dell’ultimo ventennio, protagonista di un serata a Varese, qualche giorno prima della kermesse di Milano, che lo ha definito come candidato alla guida del partito.
Osserva Paragone che Maroni è “politico intelligente” e “sa benissimo che dopo l’iniziativa di Varese dovrà andare fino in fondo”. Un primo risultato l’ha quasi ottenuto: “sostituire Marco Reguzzoni dal ruolo di capogruppo”; l’altro è tutto da giocare: “vincere il congresso federale”.
Papale papale: “In sostanza, depotenziare il ruolo che oggi ha il Cerchio magico nella Lega”.
Paragone, è un giovane giornalista che ha fatto una carriera abbastanza rapida all’ombra della Lega. Ex direttore della Padania e vice direttore di Rai 2, conduttore di trasmissioni di controverso successo, simpatico con quel suo accento padano, conosce bene l’interno della Lega, anzi delle “due leghe” tra cui ormai si dividono le anime del profondo Nord: “Da una parte c’è la Lega di via Bellerio, composta dalla nomenclatura, dai dirigenti cooptati sulla base di amicizie strettissime e da certe figure (un nome su tutti: Belsito) le cui mosse sono assai discutibili. Dall’altra c’è la Lega dei gazebo, della militanza, la Lega che si sente diversa dagli altri”.
E Bossi? La risposta di Paragone è che “la figura indiscussa di Umberto Bossi” si colloca in mezzo e al di sopra delle due anime, Bossi è “il Capo a prescindere. Che resta Capo a prescindere anche quando sbaglia”.
Ma, ammonisce Paragone, “il Capo a prescindere non può essere più simbolo e guida contemporaneamente. Perché resti il simbolo intoccabile, il Capo a prescindere deve lasciare il ruolo di guida cioè di segretario politico”.
Paragone ha già la risposta, che è Maroni, ma sa che non sarà facile: “La risposta dipende dalla dura battaglia interna, da come andrà a finire”.
Maroni “quei gradi se li dovrà andare a prendere. Non contro Bossi, il quale pur restando il simbolo non gli regalerà nulla (di questo Maroni dovrà prender coscienza). Ma contro chi di fatto già oggi indirizza Bossi verso alcune decisioni”.
Paragone è piuttosto esplicito: Maroni dovrà lottare contro chi guardava all’appuntamento di domenica in piazza Duomo a Milano “come primo redde rationem” (e gli è andata male); contro “chi difendere il posto di capogruppo o ne vorrà pilotare la successione”; contro chi “ha in mano le casse del partito e pure il giornale”. Caso concreto. Il giorno dopo la riunione di Varese, sulla Padania non c’era nemmeno una riga, ma non mancava certo “un’ampia intervista a Rosi Mauro…”.
La lotta di Maroni, spiega Paragone, sarà contro chi “ha in mano la gestione di via Bellerio sempre più fortino della nomenclatura. La partita dentro la Lega è appena cominciata e l’impressione è che Bossi non potrà fare nulla per fermarla”.
Nel suo discorso di Varese Maroni ha parlato “da segretario politico tratteggiando quella che dev’essere la Lega prossima ventura”. Ha parlato di “Europa delle regioni”, formula lanciata quarant’anni fa, al culmine della guerra civile nell’Irlanda del Nord, dal settimanale inglese Economist, in contrapposizione alla gollista “Europa delle Patrie”. Essa appariva e appare ancora come unico modo per superare, nella ricomposizione al più alto livello continentale, gli odi fratricidi che hanno contrapposto per mezzo millennio le minoranze irredente di tutta Europa al predominio dei governi centrali. E appare ancora oggi, come appariva ai padri dell’unione europea, la strada per superare gli odi fra nazioni che hanno dato all’Europa milioni di morti in mezzo secolo.
Nel discorso, ricorda Paragone, Maroni ha anche parlato “di federalismo a misura di sindaci e amministratori locali, di immigrazione e di sicurezza. Un discorso da segretario a tutto tondo. Da guida del movimento”.
A Varese, racconta Paragone che ci è nato come, soprattutto, c’è nata la Lega, da anni non si assisteva a “una partecipazione così intensa, una folla così motivata. […] Da tempo la Lega non riusciva a cambiare passo. Era indolenzita, forse schiacciata da piccole beghe interne dove il primo obiettivo del Cerchio magico erano di volta in volta i giorgettiani e poi i maroniani e poi quelli di Terra Insubre addirittura sospesi. Tutti questi stavano in platea con l’orgoglio di chi finalmente era rientrato a casa”.
“C’era l’idea di una Lega che tornava a fare e a essere la Lega al netto delle urla di Rosi Mauro, dei giochini di Reguzzoni, degli investimenti di Belsito. Ci voleva la fatwa controMaroni per liberare il movimento dalle tante piccole fatwe che gli uomini del Cerchio magico avevano affibbiato contro i militanti più scomodi, col metodo della decisione presa dall’alto. La rabbia di Maroni ha fatto saltare il tappo”.
A questo punto, però, Maroni si è bruciato i ponti e “non potrà più tornare indietro: troppe sono le attese che il popolo leghista ha riposto” in Maroni “e nel suo progetto di ripartenza. Forte è la rabbia – scaturita poi in cori da stadio – verso un certo modo di intendere la gestione del partito e il potere che queste posizioni concede”.
Maroni, osserva Paragone, lo “ha detto chiaroe tondo: così non si va avanti. Bobo ha indicato le persone che hanno avvelenato i pozzi. E la gente gli ha dato ragione con un’ovazione. La base si è schierata sotto le insegne di una Lega nella visione maroniana”