ROMA – Il disegno di legge c’è ed ha un obiettivo ambizioso: cancellare il finanziamento pubblico dei partiti, dare una risposta con 20 anni di ritardo agli italiani che quella cancellazione l’hanno votata in modo plebiscitario con un referendum, e ripensare in modo radicale il modo in cui le forze politiche ottengono le risorse.
Per ora si tratta di un disegno di legge scritto dal governo. Poco più di un progetto, fatto di 15 articoli, che deve passare l’esame del Parlamento. Non sarà facile e non sarà una cosa breve. Ma l’impianto della norma è rivoluzionario. Con il primo articolo si compie una piccola ma autentica rivoluzione culturale: si cancella l’idea che ai partiti spettino per legge dei soldi pubblici. I partiti, al contrario, quei soldi dovranno guadagnarseli ottenendo la fiducia degli italiani che volontariamente potranno scegliere se mantenerli o meno. E soprattutto chi mantenere.
Così luogo privilegiato del rapporto tra elettore e partito diventa la dichiarazione dei redditi. E’ la che il cittadino, con lo stesso meccanismo con cui oggi sceglie se destinare dei soldi ad una qualche confessione religiosa, sceglierà se destinare (a partire dal 2015, cioè con la dichiarazione del 2016) il suo 2 per mille, un due per mille che va comunque pagato e che finirebbe altrimenti allo Stato, ad un partito di sua scelta. I cittadini, poi, potranno fare donazioni diretta ai partiti fino a un importo di 5mila euro e ricevere il rimborso fiscale del 52% di questa cifra.
Tutto ispirato da un principio cardine chiaro: lo stato versa soldi ai partiti ma solo dopo che un cittadino gli ha dato il permesso con un suo atto volontario. In questo senso rientrano anche gli obblighi che la legge prevede per i partiti. Uno statuto (cosa che farà discutere) e regole supplementari per garantire il massimo possibile della trasparenza.
Oltre a questo un aiuto supplementare arriva ai partiti nell’esercizio delle loro funzioni pubbliche. La legge prevede la gratuità di teatri, sedi, spazi televisivi. Tutto ciò che serve per organizzare la propria attività politica propriamente detta.
Non è però tutto lineare, non è tutto scontato. Perché ci sono dei ma, delle difficoltà oggettive. La prima è che usufruiranno della legge solo i partiti “in regola”. Ovvero quelli con uno statuto e con un organigramma chiaro e responsabili ben individuabili. Una richiesta di trasparenza per chi gestirà milioni donati dai cittadini.
Il secondo ma è più grosso e più delicato. I partiti non ce la fanno. Le casse sono già vuote coi rimborsi e la situazione peggiorerà. Difficile immaginare milioni di italiani pronti a votare. E già Pd e Pdl hanno pianto miseria parlando di cassa integrazione o, peggio, di licenziamento dei dipendenti. Non degli onorevoli ma dei semplici segretari, e affini. Quelli che mandano avanti la baracca organizzativa.
E poi c’è la questione dei tempi. Non se ne parla prima del 2017: il sistema delle detrazioni fiscali ha di suo tempi lunghi per andare a regime. Aggiungiamoci la “fisiologica” resistenza dei partiti e c’è da scommettere: se rivoluzione ci sarà, sarà con calma.
Che si tratti di un passo importante per la politica italiana lo ha sottolineato lo stesso presidente del Consiglio Enrico Letta: “Il Consiglio dei ministri ha approvato la fine del finanziamento come l’abbiamo conosciuto, è un passo importante, lo avevamo promesso e abbiamo mantenuto la promessa” e ”confido nel fatto che il Parlamento lo approvi rapidamente perché ne va della credibilità del sistema politico”, ha detto il premier, spiegando che la gradualità (”decalage”) è imposta ”dal meccanismo fiscale”. Si tratta di un ”tema molto importante” e ”sono sicuro e convinto che le forze politiche” sono impegnate su questo.
Quanto al fatto che è stato approvato con la formula ”salvo intesa”, Letta ha detto: ”E’ soltanto legata alla bollinatura della Ragioneria e non alla parte politica perché i nodi politici sono già risolti e la coesione politica della maggioranza è stata importante”, ha aggiunto, ringraziando i partiti per quanto fatto.
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