ROMA – “Guai a chi azzoppa il Pd, ci sono dirigenti che lo fanno”. Ha un bel dire il segretario del Partito Democratico Pier Luigi Bersani in un’intervista all’Unità. Replica, chiaramente, agli attacchi piovuti sulla direzione del partito da Arturo Parisi, che sottolinea impietosamente i tentennamenti del pachiderma democratico di fronte al referendum sulla legge elettorale. Ora Parisi potrà essere per chi lo ammira un coraggioso bastian contrario e per i detrattori un logoratore di professione, ma Bersani dovrà spiegare come si fa ad azzoppare un partito zoppo. E già, perché non esiste una questione in cui il Pd abbia un passo deciso e sicuro. Qualche studioso di storia contemporanea potrebbe arrivare a cercare le radici di questa zoppìa nel caos politico che seguì alle amministrative del 1975. Ma senza “studiare” troppo, si possono fare quattro esempi di immediata attualità.
Referendum: cavalcare la tigre di un milione e duecentomila firme e unirsi a Di Pietro e Vendola nella battaglia referendaria? O rimanere prudentemente in disparte per non far scartare a destra l’Udc di Casini, preferendo una soluzione parlamentare al problema della legge elettorale? Nel Pd valgono entrambe le linee, non si è fatto tesoro dello zig-zag sui referendum su acqua e privatizzazioni del 12 e 13 giugno scorsi. Allora è andata bene: nessuno ricorda che il Pd era per la privatizzazione, controllata e garantita ma sempre privatizzazione. Poi scartò e vinse, facendo finta di dimenticare. Ma Parisi non dimentica, ospite in tv all’Infedele di Gad Lerner ha buon gioco a chiosare: “Il Pd ha sostenuto il referendum? I democratici sì, tantissimo. Il segretario pure, ma dopo”. Così si chiude un’estate di tormenti e contorsioni. Il partito, inizialmente contrario ai referendum nonostante un pezzo da 90 come Parisi sia dall’inizio nel comitato promotore, ha poi mano a mano ceduto alle pressioni dell’ala “ulivista”: iniziando a mettere a disposizione i banchetti; continuando con firme “pesanti” come quelle di Walter Veltroni e di Romano Prodi; finendo in questi giorni con la bersaniana Chiara Geloni, direttrice di Youdem tv, che ha scritto di essere “orgogliosa di non aver firmato” mentre Bersani stesso non riesce a chiarire se ha firmato o no.
Governo di emergenza o elezioni? Nel giorno del “patto di Vasto”, il 16 settembre, Antonio Di Pietro e Nichi Vendola gridavano sul palco: “Elezioni! Elezioni!”. E Bersani? No. Nel partito, specialmente in quella parte che sta sempre attenta a non indispettire troppo l’Udc, si parla dai tempi dei primi scricchiolii berlusconiani (remember Veronica Lario-Noemi Letizia?) di un “governo di emergenza” che affronti le questioni economiche più urgenti, rassicuri i mercati, cambi la legge elettorale e traghetti il Paese a nuove elezioni. Bersani ha sposato l’una e l’altra soluzione a giorni alterni.
La lettera della Bce. Se il segretario del partito tentenna, i vertici – non i militanti – litigano. Stefano Fassina è il responsabile Economia e Lavoro del Pd. Enrico Letta è il vicesegretario. Il primo dice lamenta un’invasione di campo da parte della Banca centrale europea che “non è un organo democraticamente eletto” che “agisce nel vuoto della politica”. Il secondo gli ha replicato durante la direzione nazionale che ”La Bce ha salvato e sta salvando l’Italia” e che ”la cosa inusuale non è la lettera, la cosa inusuale è che la Bce abbia preso una decisione politica: salvare la Spagna e l’Italia”. Decisione ”che gli organi politici europei non hanno avuto il coraggio di assumere”.
La legge elettorale. C’è chi sta col maggioritario e chi col proporzionale. Poi c’è il Pd. Questa è la fotografia che fa Roberto d’Alimonte sul Sole 24 ore:
Il Pd è spaccato tra bipolaristi e proporzionalisti. In fondo è l’unico partito che ancora non ha fatto una scelta chiara. Pur di non scegliere ha presentato in Parlamento una proposta in cui c’è di tutto: collegi uninominali, doppio turno, proporzionale e diritto di tribuna. È una specie di modello ungherese che accontenta per ora le varie anime del partito ma che difficilmente può rappresentare una alternativa all’attuale sistema elettorale. Se si arriverà alla resa dei conti il Pd dovrà scegliere e molti dentro il partito – probabilmente la maggioranza – potrebbero preferire un sistema proporzionale di tipo tedesco o spagnolo.
Sono quattro istantanee in cui si notano tutti i problemi di un partito “too big to fail” ma troppo grande anche per riuscire a muoversi. Così, dall’eccessivamente inclusivo “ma anche” di Veltroni al sempre svicolante “ma neanche” di Bersani, per il Pd è cambiato solo il modo di zoppicare.
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