Sulle pensioni d’oro, si è acceso un dibattito fra l’ala sindacale dei deputati del Pd (Cesare Damiano, Maria Luisa Gnecchi) e la nuova pasionaria anti pensioni d’oro Giorgia Meloni, che hanno bollato di “propagandismo” in documenti ufficiali.
Li divide la soglia delle pensioni d’oro: 5 mila euro netti, dicono al Pd, 5 mila lordi dice la Meloni. Il Pd alza la soglia dell’oro ma non spiega come considerare quelle pensioni anche molto alte che sono frutto di contributi realmente versati e non di regali vergognosi come quelle dei Parlamentari (tema peraltro di cui Cesare Damiano è consapevole).
In questo Giorgia Meloni, pur proponendo calcoli impossibili, non nega il diritto, a chi ha versato tutta la vita di lavoro tanti soldi, di godersi una ricca vecchiaia.
Il terreno è scivoloso perché negare a un italiano il diritto di guadagnare molto, moltissimo e di aspettarsi, in base ai contributi versati per quarant’anni, una pensione coerente, prevede come passo successivo il tetto anche alle retribuzioni e poi l’instaurazione di una Repubblica popolare in cui chi guadagna più di 2.500 euro al mese è un affamatore e un nemico del popolo.
Probabilmente consapevoli, sia Damiano e compagni sia Meloni e camerati, evitano il tema specifico. Lo evita anche il neo primo ministro Matteo Renzi, il quale sembra avere fatto un passo avanti, rispetto alla posizione del suo consigliere Yoram Gutgeld, che voleva cancellare e negare le leggi delloStato italiani su cui le pensioni, anche quelle d’oro, sono basate.
Matteo Renzi, citato da Businessonline.it, ha detto:
“Sulle pensioni è stato già approvato dal Parlamento un contributo di solidarietà. La Corte Costituzionale poi è stata molto chiara: non si può intervenire in modo discriminante. Comunque le pensioni staranno al di fuori di questo taglio generale”.
I pensionati aspettano di vedere le conseguenze di queste parole, mentre il loro presidente, Franco Abruzzo, dice senza peli sulla lingua, che quella delle pensioni d’oro è
“un’impostura semantica odiosa inventata dai mass media, cioè dalla nostra stessa categoria, perché tenta di far passare per ladri e affamatori del popolo uno sparuto gruppetto di onesti cittadini che si limitano a riscuotere ogni mese i frutti dei loro sudatissimi contributi, versati per anni e anni ai rispettivi istituti di previdenza”.
È intanto disponibile un documento di parte Pd, opera della Associazione Lavoro & Welfare: si intitola “Cantiere previdenza. Decalogo per le pensioni”, è lungo 2.300 parole e porta la firma di Cesare Damiano, Maria Luisa Gnecchi, Teresa Bellanova, Floriana Casellato, Anna Giacobbe, Patrizia Maestri, Luisella Albanella, Davide Baruffi, Antonio Boccuzzi, Monica Gregori, Chiara Gribaudo, Antonella Incerti, Marco Miccoli, Giorgio Piccolo, Giuseppe Zappulla e come riferimento il nome di Anna Giacobbe.
Il documento è stato presentato in pubblico il 27 febbraio.
Sono
“dieci temi da conoscere, dieci obiettivi da raggiungere, un pericolo da contrastare”.
Ecco il testo:
“È in gestazione un nuovo attacco al sistema pensionistico: l’attenzione si rivolge ora alle pensioni in essere. I pensionati non sono numeri: sono persone, storie fatte di sacrifici e di scelte fatte in diversi contesti storici. Certo, c’è anche l’abuso delle pensioni d’oro, quelle ottenute furbescamente attraverso calcoli di convenienza attuariale o con la sommatoria di vitalizi dovuti al cumulo degli incarichi: in questo caso è giusto parlare di privilegi che vanno combattuti e superati. Ma l’impressione è che si voglia partire dalle pensioni d’oro per scivolare verso quelle d’argento, a quelle di bronzo e a quelle di ferro. Il peccato originale di questi lavoratori, secondo alcuni commentatori e studiosi, è quello di avere un assegno pensionistico calcolato con il sistema retributivo. Il rimedio? Ricalcolare tutte queste pensioni e, nel caso ci fosse uno scostamento rispetto al calcolo contributivo, decurtare la cifra in più dalla pensione percepita. La giusta lotta contro le “pensioni d’oro” diventerebbe il grimaldello per scardinare nuovamente il sistema pensionistico.
Questo disegno va sconfitto. Dopo il salasso subito dalla previdenza con la “riforma” Fornero a carico dei lavoratori che stavano per andare in quiescenza, adesso l’attenzione si rivolge al “tesoretto” delle pensioni in essere. Si pone un problema giusto, quello della pensione adeguata per i giovani, e si suggerisce la soluzione sbagliata: la riduzione dell’assegno a chi è oggi in pensione, non distinguendo tra chi arriva a malapena a fine mese e chi nuota nell’oro.
Secondo la Ragioneria Generale dello Stato tra il 2020 ed il 2060 si risparmieranno, con l’ultimo intervento sulle pensioni targato Fornero, oltre 300 miliardi di euro. Con le pensioni si é abbondantemente foraggiata la diminuzione del debito pubblico. È giunto il momento di restituire risorse pensando ad interventi di correzione del sistema: primo fra tutti, la flessibilità nell’uscita dal lavoro verso la pensione, per le vecchie e le nuove generazioni, cancellando l’assenza di gradualità della “riforma” Fornero, che tanti danni ha provocato.
1. Dal retributivo al contributivo. Con la riforma Dini del 1995 il sistema previdenziale ha adottato il sistema contributivo per coloro che entrano nel mondo del lavoro a partire dal primo gennaio 1996 e un sistema misto per chi aveva allora meno di 18 anni di contributi. Con il sistema retributivo, ad esempio, la pensione erogata dopo 40 anni di lavoro equivale all’80% della media delle retribuzioni degli ultimi 10 anni, di solito i più favorevoli sotto il profilo della busta paga.
Il metodo contributivo, invece, eroga una pensione calcolata sulla base dei versamenti effettuati lungo l’intero arco della vita di lavoro con coefficienti di calcolo collegati all’andamento del PIL: un indicatore negativo, occorre ricordarlo, in questi anni di recessione economica. Il sistema retributivo é convissuto con il periodo della inflazione a due cifre e con la “svalutazione competitiva”, che rendevano carta straccia pensioni inizialmente sostanziose. Ora siamo in un’altra situazione e non, a caso, dal 1996 é stato introdotto il metodo contributivo.
2. Giovani e Pensioni. Per i giovani l’obiettivo di non avere pensioni “da poveri” si persegue affrontando il problema da più versanti. Le giovani generazioni approdano più tardi al lavoro, incontrano inizialmente una attività precaria che comporta basse retribuzioni e discontinuità occupazionale: il risultato previdenziale non potrà che essere basso. Proponiamo di
– abbassare l’età di ingresso all’impiego attraverso modalità di alternanza scuola-lavoro a partire dall’ultimo biennio di istruzione superiore (una normativa contenuta nel Decreto-Legge 12 settembre 2013, n. 104, convertito con modificazioni dalla L. 8 novembre 2013, n. 128).
– garantire un equo compenso per tutte le forme di impiego che non hanno a riferimento un contratto nazionale di lavoro e prevedere contributi figurativi nei momenti di disoccupazione.
– istituire una pensione di base, finanziata dalla fiscalità generale, del valore di 442 euro (l’attuale assegno sociale) alla quale aggiungere quella maturata dal lavoratore, sia esso dipendente, autonomo o parasubordinato, sulla base dei contributi versati. Tale pensione è riconosciuta al compimento del sessantacinquesimo anno di età, purché si siano versati almeno quindici anni di contribuzione effettiva.
– per i lavoratori parasubordinati, già oggi fortemente penalizzati, iscritti per la prima volta alla Gestione separata successivamente al 31 dicembre 1995, riconoscimento di una maggiorazione fino ad un massimo del 20 per cento dei coefficienti di trasformazione applicabili, ovvero di un incremento dell’aliquota di computo, entro il limite applicabile ai lavoratori dipendenti.
Queste misure pongono le basi per consentire il raggiungimento di un risultato pensionistico, per le nuove generazioni, come quello previsto nel Protocollo del 2007 sottoscritto da Governo e parti sociali: un tasso di sostituzione stipendio/pensione pari al 60%.
3. La flessibilità in uscita. Il Partito Democratico ha ripresentato in questa legislatura la Proposta di Legge C. 857, che mira a reintrodurre una gradualità di uscita dal lavoro verso la pensione e a garantire modalità omogenee di uscita dal mondo del lavoro a tutte le categorie di lavoratori. È necessario prevedere forme di flessibilità nel pensionamento che, attraverso un sistema di penalizzazione e premialità, consentano di poter decidere, all’interno di un range variabile tra i 62 e i 70 anni di età, il momento della cessazione dell’attività lavorativa a condizione che si abbiano almeno 35 anni di contributi e un assegno che sia almeno una volta e mezzo l’importo della pensione sociale. Questa misura ha un carattere strutturale e risolve molti problemi creati dalla riforma Fornero. Inoltre, nel disegno di legge si prevede di unificare a 41 anni di contributi, per uomini e donne, il criterio che consente di andare in pensione a prescindere dall’età anagrafica e senza penalizzazioni di sorta, se questo avviene anche prima di 62 anni.
4. Gli “Esodati”. Il Parlamento è intervenuto a più riprese per tutelare le aspettative di chi è stato vittima della manovra Fornero, ossia dei soggetti prossimi al raggiungimento dei requisiti pensionistici espulsi a vario titolo dal mercato del lavoro. Abbiamo faticosamente conquistato una disciplina transitoria individuando alcune categorie di lavoratori ai quali continua ad applicarsi la normativa previgente. Per effetto dei ripetuti interventi è stata garantita copertura previdenziale ad un totale di circa 162.000 lavoratori, con una spesa che supera gli 11 miliardi di euro.
La previsione di un apposito fondo per intervenire in futuro per salvaguardare altri è uno strumento importante per risolvere in modo definitivo questo problema, ma è necessario che esso sia alimentanto in misura adeguata.
5. Le ricongiunzioni. Sono ancora vittime delle ricongiunzioni onerose i lavoratori e le lavoratrici che sono nel pubblico impiego e nei fondi esonerativi e sostitutivi dell’Assicurazione Generale Obbligatoria INPS.
Lo stesso Ministro Sacconi, che introdusse l’obbligo di ricongiunzione onerosa anche verso l’INPS, ammise a suo tempo che la decisione fu motivata dal timore che vi fossero pensionamenti «in massa» delle donne del pubblico impiego che, a seguito dell’innalzamento del limite di età per l’accesso alla pensione di vecchiaia delle dipendenti pubbliche, avrebbero potuto trasferire gratuitamente i propri contributi all’INPS per poter andare in pensione prima. Quindi, pensata come norma contro le donne, ha penalizzato tutti coloro che si trovavano con l’iscrizione previdenziale in due o più fondi, costringendoli al pagamento doppio dei contributi.
Grazie all’impegno del Parlamento, si è riusciti almeno a tutelare la categoria dei cosiddetti «cessati» dal pubblico impiego e dai fondi esclusivi ed esonerativi entro il luglio del 2010, si tratta ora di intervenire a salvaguardia di tutti gli altri soggetti : nella maggior parte dei casi si tratta di lavoratori con pensioni basse che non otterrebbero alcun trattamento privilegiato con la ricongiunzione dei contributi, ma solo una pensione più equa, rapportata a tutta la propria contribuzione.
La nostre proposta di legge (C. 929) prevede anche la pensione supplementare, per valorizzare ogni contributo versato, sia che si tratti di contributi versati all’INPS o all’INPDAP o ad altri fondi. E’ inaccettabile che chi sia titolare di una pensione INPDAP possa avere una pensione contributiva supplementare in base a contributi INPS e non viceversa
6. Armonizzazione dei regimi pensionistici. La “manovra Fornero” prevede l’emanazione di un regolamento per incrementare progressivamente i requisiti minimi di accesso al pensionamento anche per regimi pensionistici e per gestioni pensionistiche per cui siano previsti requisiti diversi da quelli vigenti nell’assicurazione generale obbligatoria. Si richiama anche il Fondo Speciale delle Ferrovie dello Stato, ma non si comprende per quale motivo gli iscritti al Fondo Speciale delle FS siano stati esclusi dal processo di armonizzazione, trovandosi catapultati assolutamente in modo ingiusto nei requisiti previsti per la generalità dei lavoratori, senza tener conto della loro specificità. È un palese errore avere spostato l’età anagrafica di accesso alla pensione da 58 a 67 anni, non tenendo quindi conto di categorie particolari, come ad esempio i macchinisti, il personale di scorta ai treni, i manovratori ed il personale marittimo delle FS.
Nel frattempo è già stato emanato il primo regolamento di armonizzazione (DPR 28 ottobre 2013, n. 157) che, ad esclusione del personale militare e dei vigili del fuoco, ha armonizzato i requisiti di accesso alla pensione per gli iscritti alle seguenti gestioni pensionistiche: spedizionieri doganali, marittimi, servizi pubblici di trasporto, poligrafici, lavoratori dello spettacolo e sportivi. Il processo di armonizzazione deve essere attuato per tutti i regimi pensionistici seguendo il giusto principio di equità e tenendo conto delle particolari condizioni di lavoro e delle mansioni esercitate dalle suddette categorie di lavoratori.
7. L’automatismo delle prestazioni INPS (Proposta di legge C. 1913). Va superata l’anacronistica esclusione dei lavoratori parasubordinati dall’applicazione del cosìddetto principio di automaticità della prestazione previdenziale e assistenziale prevista per i lavoratori dipendenti dall’articolo 2116 del codice civile. Infatti, con l’instaurazione del rapporto di lavoro sorge, in favore del lavoratore, il diritto all’adempimento degli obblighi assicurativi da parte del datore di lavoro. Il codice civile prevede tale garanzia per i soli lavoratori dipendenti. Questo diritto non può non essere applicato anche al lavoratore parasubordinato al quale, a differenza del libero professionista, non possono essere imputate omissioni contributive del proprio datore di lavoro.
8. L’indicizzazione delle pensioni e il Tavolo di concertazione. Da molti anni è stato eliminato qualsiasi aggancio delle pensioni all’andamento dei salari o alla crescita dell’economia. L’unico strumento per adeguare almeno in parte il valore delle pensioni rispetto alla perdita del potere d’acquisto è la cosiddetta “perequazione automatica”, un meccanismo che, una volta all’anno, adegua parzialmente le pensioni alla variazione del costo della vita. Questo meccanismo ha subito negli anni molti interventi di modifica, ed a volte di blocco totale per le pensioni oltre un certo importo. In particolare, nel 2012 e 2013, tutte le pensioni superiori a 1500 euro lordi (meno di 1200 euro netti), cioè tre volte il minimo, non hanno avuto alcun adeguamento.
La Legge di Stabilità 2014 fa ripartire il meccanismo di tutte le pensioni, anche se con alcuni limiti.
La riduzione del potere d’acquisto di milioni di pensionati con reddito medio-basso è un freno potentissimo alla ripresa dell’economia e del lavoro. Per questo abbiamo voluto che soprattutto le pensioni tra 1200 e 1500/1600 euro, che sono il frutto di una vita di lavoro e di contributi realmente versati, avessero una buona protezione dalla perdita del potere d’acquisto.
Inoltre abbiamo riproposto, con un ordine del giorno del Pd (Ordine del Giorno 9/01865-A/111) la questione dei redditi dei pensionati e della necessità che si trovino strumenti per realizzare un aumento reale dei trattamenti, a partire da quelli che sono bassi, ma che derivano da storie contributive vere: abbiamo impegnato il Governo ad istituire un tavolo di concertazione tra i Ministri competenti e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, per definire misure di salvaguardia delle pensioni in essere e valutare le esigenze e le condizioni di ulteriori interventi a sostegno dei redditi da pensione
9. La Governance dell’INPS. Nella precedente legislatura il Partito Democratico aveva posto al Governo, attraverso una Mozione presentata il 22 marzo 2012 e approvata in Aula a larghissima maggioranza, la necessità di garantire una governance dell’ente equilibrata, collegiale e trasparente, e sollevato il problema della contemporanea coesistenza di numerosi incarichi in altre società da parte dell’ex Presidente dell’Istituto, Antonio Mastrapasqua. Nell’attuale legislatura è stata inoltre ripresentata una proposta di legge (Proposta di legge C.556) con la quale si individua un nuovo modello di ordinamento degli enti previdenziali ed assicurativi.
Adesso, anche alla luce delle ultime novità, è ancora più evidente l’urgenza di un intervento riformatore affinché si ponga rimedio ai troppi nodi rimasti irrisolti.
Nel nostro disegno di legge proponiamo:
il rispetto del principio di separazione tra indirizzo politico e gestione; la salvaguardia del principio di rappresentatività delle parti sociali in un organismo con poteri rafforzati; l’efficacia dei sistemi di controllo; adeguati livelli di professionalità nell’esercizio delle funzioni assegnate ai diversi organi; processi decisionali definiti allo scopo di evitare possibili conflitti; una corretta ed efficiente gestione dei processi di programmazione, attuazione, controllo e valutazione.
10. Le Pensioni d’oro. Il testo base dal quale siamo partiti é il disegno di legge dell’On. Meloni di cui il suo gruppo, in quota opposizione, ha richiesto la sua calendarizzazione in Aula. Esso contiene errori grossolani: la soglia prevista per individuare le pensioni d’oro è di 5mila euro lordi mensili, 3200 euro netti circa (la pensione media di un quadro d’azienda con 40 anni di lavoro); per conseguire tale soglia, si somma anche la pensione integrativa e/o complementare (che è una forma di risparmio nella quale il lavoratore mette a disposizione le sue risorse personali e compreso i TFR); si prevede un ricalcolo con il sistema contributivo delle pensioni che eccedono il limite dei 5.000 euro lordi mensili. Si tratterebbe di esaminare le posizioni individuali: mentre i dati relativi alle pensioni INPS sono su supporto informatico, quelli riguardanti le pensioni INPDAP sarebbero da ricostruire dal cartaceo. Inoltre il tutto è ad evidente rischio di incostituzionalità.
Tutto ciò tradisce il carattere esclusivamente propagandistico della proposta Meloni. È necessario invece colpire le vere pensioni d’oro, quelle conseguite con calcoli attuariali opportunistici o con l’acquisizione di privilegi, compresi molti vitalizi.
Il Parlamento, nella legge di stabilità 2014, ha introdotto un contributo di solidarietà del 6% per le fasce di pensione tra 90 mila euro e i 130 mila euro, del 12% per le quote tra 130 e 190 mila euro, del 18% per le quote superiori a questo importo.
Le nostre ulteriori proposte:
* fissare un tetto di 5.000 euro netti mensili, pari a circa 90.000 euro lordi annui, ed intervenire sopra questa cifra;
* non sommare per il conseguimento di questa soglia, le pensioni integrative o complementari; sommare, invece, i vitalizi di varia natura;
*studiare un metodo che non sia il ricalcolo e che non incorra nella censura della Consulta: ad esempio il congelamento della indicizzazione o la stabilizzazione del contributo di solidarietà oltre la soglia individuata.
Le risorse risparmiate andrebbero in ogni caso restituite al sistema pensionistico”.
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