Corte dei Conti: i consiglieri Rai che nominarono Meocci direttore generale, condannati per danno erariale

ROMA – La tormentata vicenda della nomina di Alfredo Meocci a direttore generale della Rai è tornata di attualità per una serie di notizie che riguardano gli ex componenti dell’Autorità delle Comunicazioni tra il 1998 e il 2005, di cui lo stesso Meocci faceva parte, e i componenti del Consiglio di Amministrazione della Rai che nominarono Meocci alla carica di direttore generale.

Si tratta di notizie positive per Meocci e i suoi ex colleghi consiglieri dell’Agcom in cerca di un lavoro nel settore dell’editoria o delle comunicazioni e molto ma molto negative per quei consiglieri della Rai che votarono la sua nomina, Giuseppina Bianchi Clerici, Gennaro Malgieri, Angelo Petroni, Marco Staderini, Giuliano Urbani e per il ministro delle Finanze in carica all’epoca, Domenico Siniscalco.

Meocci e gli altri suoi colleghi consiglieri dell’Agcom ai suoi tempi (Enzo Cheli, Silvio Traversa, Vincenzo Monaci, Antonio Pilati, Giuseppe Sangiorgi, Alessandro Luciano, Mario Lari, Paola Manacorda  ) hanno ottenuto una vittoria nei confronti della stessa Autorità, grazie alla Avvocatura dello Stato, che ha stabilito che avevano diritto a farsi rimborsare delle spese legali, da 6 a 30 mila euro a testa, sostenute per difendersi in un procedimento giudiziario a loro carico, per fatti legati alla attività di consiglieri, che si era poi concluso positivamente per loro con una archiviazione.

Meocci inoltre, e con lui tutti gli altri, ha ricevuto conferma dal presidente dell’Autorità Corrado Calabrò, circa la fine del termine di incompatibilità nei confronti dello stesso Meocci in quanto ex consigliere in relazione alla possibilità di rapporti di consulenza o di lavoro con aziende sottoposte al controllo della Agcom.

Proprio dalla incompatibilità per Meocci di diventare direttore generale della Rai è partito il tegolone che si è abbattuto sul capo dei consiglieri d’Amministrazione che a suo tempo ne votarono la nomina, nell’agosto 2005: Marco Staderini, Gennaro Malgieri, Giovanna Bianchi Clerici, Angelo Maria Petroni e Giuliano Urbani, e sull’ex ministro Siniscalco, che la condivise, proponendola. Tutti quanti dovranno risarcire lo Stato di 1,8 milioni di euro a testa, almeno stando alla sentenza di primo grado della Corte dei Conti, per danno erariale. Meocci, che ha già dovuto pagare salate multe, è stato anche lui condannato a risarcire allo Stato circa 107 mila euro, pari alla differenza tra lo stipendio preso e quello che gli sarebbe toccato nella qualifica con cui era partito per l’Agcom.

Altri imputati sono stati, prosciolti, come l’ex direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli,  e altri condannati per la gestione operativa della nomina, come l’ex capo dell’ufficio legale della Rai, Rubens Esposito, per un problema di consulenze.

Intorno alla nomina, infatti, ci fu un vero e proprio turbine di consulenze legali, per confortare la decisione che aveva obiettivi elementi controversi, ma per la Corte, quelle richieste dopo la nomina, pur in presenza di un piccolo esercito di venti avvocati interni all’ufficio legale della Rai, non sono giustificate e ci sono stati anche aspetti non graditi dai giudici nella comunicazione al Consiglio degli incarichi dati a illustri e costosi docenti universitari.

Meocci infatti, prima di essere eletto, dal Parlamento, consigliere della Autorità Agcom, era dipendente Rai, come giornalista, caposervizio del Tg. Dopo la nomina si mise in aspettativa e quindi, anche secondo chi fu contrario al suo nuovo incarico, aveva diritto a rientrare nei ranghi aziendali. Il punto centrale della controversia è stato in tutti questi anni, dal 2005, se la nomina a direttore generale fosse nella normalità del rientro in servizio dopo l’aspettativa o costituisse una “novazione”, cioè un a tale novità di rapporto da poter essere paragonata a una assunzione alla Telecom, a Mediaset o al Corriere della Sera.

Per l’Autorità delle comunicazioni, il cui consiglio peraltro si spaccò sul voto decisivo, per il Tar, per il Consiglio di Stato e anche per la Corte dei conti la nomina era illegittima. Di qui la multa inflitta alla Rai, per 14 milioni di euro, calcolati in base a un parametro di legge che indica l’entità della multa nello 0,5 per cento del fatturato dell’azienda colpevole. La cifra, con una serie di passaggi, dividendo e aggiungendo interessi e rivalutazione, si sono trasformati nella stangata di 11 milioni per danno erariale da dividersi in sei di cui alla sentenza: un po’ è la parte che spetta ai condannati della multa e in parte è un risarcimento dovuto alla Rai per il danno che  avrebbe subito la sua immagine a causa di questa storia. Forse le recenti paradossali vicende della Rai ci hanno abituato a ben altro ormai. Solo in Italia può accadere che il direttore generale Mauro Masi irrompa in diretta nella trasmissione di Michele Santoro per avvertirlo di un potenziale rischio legale o che lo stesso Santoro in diretta gratifichi Masi di “vaffa” che fanno impallidire i più volgari cinepanettoni.

Ma il generale imbarbarimento dei rapporti non esonera dalle loro responsabilità, per la Corte dei conti, i consiglieri Rai che votarono Meocci. Tutti erano convinti di avere agito non solo secondo le indicazioni dell’azionista della Rai, cioè il Governo, occupato da esponenti della loro stessa parte politica e guidato da Silvio Berlusconi; erano stati convinti della validità della deliberazione anche dai pareri legali raccolti dall’ufficio legale della Rai. In realtà non tutti i pareri sottoposti ai consiglieri dicevano la stessa cosa, un po’ perché i quesiti posti ai legali toccavano aspetti e prospettive diversi e un po’ anche perché non erano tutti d’accordo sul nodo centrale, se Meocci potesse o no diventare direttore generale della Rai.

Quattro sono i pareri che la Corte dei conti considera validi, ai fini della formazione della volontà del consiglio, perché espressi prima della nomina, quelli di Pace, Luciani, Malinconico e Ripa di Meana, tutti importanti giuristi e avvocati. Il prof. Pace, riassume la Corte, fu radicale: Meocci in Rai non ci doveva proprio tornare, in nessun modo. Per Luciani invece si poteva fare: ma forse perché non gli fu chiesto, si limitò a dire che il giornalista Meocci poteva tornare a fare il giornalista. Ripa di Meana diede parere contrario proprio alla nomina a direttore generale, perché la nomina a quella carica avrebbe richiesto un nuovo contratto e quindi anche se l’azienda era la stessa, il rapporto che si instaurava era nuovo di zecca e quindi era come con una qualsiasi altra azienda proibita.

€€€€€€€€€€€Non ci furono invece dubbi per Malinconico, il cui parere è così riassunto dalla sentenza: “cessata la causa d’incompatibilità, il rapporto di lavoro si riespande”, quindi “non vi sarebbero” stati ostacoli al fatto che “il soggetto interessato, reinserito in Azienda”, fosse “chiamato a svolgere qualsiasi incarico o funzione, ivi compreso quello di direttore generale”.

Il parere di Malinconico, attuale presidente degli editori italiani, era un parere pesante, perché, oltre a essere consigliere di Stato, era stato anche, dal ’96 al 2001 capo del Dipartimento degli Affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio. Sarebbe poi diventato segretario generale della Presidenza nel 2006, con il Governo Prodi. Sono dettagli che non compaiono nella biografia diffusa dalla Federazione editori, ma che confortarono i consiglieri della destra in Rai nel voto pro Meocci. Non è da escludere che questo otto volante di governi e incarichi abbia finito per creare qualche imbarazzo a Malinconico, al punto da indurlo, nel dicembre 2006, pochi mesi dopo la nomina a Palazzo Chigi, a rinnegare il suo parere di un anno prima: “Stilai il parere in poche ore, senza la possibilità di operare una attenta riflessione su tutte le problematiche che mi erano state poste. […] Se avessi avuto la possibilità di riflettere e studiare meglio il punto, lo avrei rappresentato in maniera più problematica”.

C’è anche una affermazione di Malinconico che contrasta con il credito che a suo parere sembra dare la Corte dei conti. Dice Malinconico che formulò quel parere non solo in poche ore e senza riflettere bene, ma anche senza incarico formale dalla Rai e senza alcun compenso. C’è da avere i brividi a pensare che sei signori pagheranno milioni di euro per essersi fidati di una simile opinione, cui peraltro la Corte riconosce piena dignità al pari delle altre e della cui gratuità sembra inconsapevole, al punto di esporre in sentenza il compenso che Malinconico avrebbe percepito,  18.360 euro. Si tratta di una cifra inferiore a quanto liquidato agli altri professionisti (27.450 euro ciascuno) ma non zero lire.

La vicenda Meocci ha occupato per parecchio tempo i giornalisti specializzati nella politica che avvolge radio e tv in Italia ed è probabile che ci sia ancora da scrivere in futuro. Essa infatti costituisce una bruciante lezione per chiunque pensi che agire secondo le direttive del partito esoneri da ogni responsabilità personale. Per Meocci e quelli che lo hanno sostenuto si dimostra che avere obbedito a Berlusconi è costato molto caro e questo vale per chiunque si allinei a decisioni non corrette, chiunque le abbia prese. Vale anche che i pareri non servono a molto, anche se vengono dalla cattedra più alta.

C’è poi un’ottima notizia per Berlusconi, una conseguenza certo non voluta della decisione sul caso Meocci, che però può dare un duro colpo alla capacità competitiva della Rai. La sentenza della Corte dei conti conferma che anche la giustizia amministrativa, oltre a quella penale, considera la Rai come un pezzo di Stato. Anzi la sentenza formalizza il principio con parole chiare, semplici e micidiali. La Corte dei conti non dà peso alcuno al fatto che la Rai sia una società per azioni: la sua natura, la sua missione pubblica, ne fanno un pezzo dell’apparato statale.

La Corte nega, e lo fa con una certa durezza, che la RAI sia “una società per azioni di diritto privato “speciale”, strutturata come impresa operante in un mercato concorrenziale” e quindi sottratta alla giurisdizione della giustizia contabile.  La Rai, “ancorché società per azioni, a differenza di altre società partecipate dallo Stato, ha evidenti e non contestabili peculiarità che la fanno definire sul piano sostanziale e malgrado la veste  formale, pur con innegabili particolarità, quale “ente assimilabile ad una amministrazione pubblica”. La possibilità di operare sul mercato concorrenziale non può, [secondo la Corte, costituire] elemento discriminante di natura tale da far venir meno l’interesse, anch’esso costituzionalmente garantito, ad un’amministrazione efficiente ed efficace, così da mandare esenti i suoi amministratori, che operano con capitale pubblico, da quella responsabilità amministrativa che astringe tutti i pubblici agenti”.

La tesi della Corte è che quando “la maggioranza o totalità del capitale sia in mano pubblica”, allora “l’interesse perseguito dalla società diviene una componente del più generale interesse sociale, con conseguente compressione di quello squisitamente lucrativo”.

Secondo la Corte la legge è chiara: anche se “la RAI è assoggettata alla disciplina delle società per azioni, anche per quanto concerne l’organizzazione e l’amministrazione,€ afferma la sussistenza di due importanti elementi identificativi dell’attrazione nell’alveo pubblico della stessa società (e della conseguente giurisdizione per le ipotesi di responsabilità amministrativa): l’essere titolare di una concessione esclusiva (comma 1) e il dover garantire “il corretto adempimento delle finalità e degli obblighi del servizio pubblico generale”. [Quindi] alla luce della perseguita funzione pubblica della Rai, ancorché assoggettata ad un regime di libera concorrenzialità, va riaffermata la giurisdizione contabile in ipotesi di responsabilità amministrativa dei suoi amministratori o dipendenti”

Conseguenza di ciò è che chi lavora in Rai a tutti i livelli, corre dei rischi che il dipendente di un’azienda privata non corre. Ciò impone una cautela che chi opera nel privato deve solo attribuire alla dovuta diligenza di gestione, ma che non può frenarlo nel prendere decisioni anche azzardate. Anzi anche a prendere decisioni sotto precisa indicazione dell’azionista di controllo, la cui capacità di comando è peraltro analoga a quella di un azionista privato che disponga di una maggioranza pari al 50 per cento o superiore del capitale di una società totalmente privata. Opporsi alle sue indicazioni e proposte significa una guerra aperta tra azionista e consiglio che può portare solo al suo scioglimento: questo vale tanto nel pubblico quanto nel privato.

Se per avere eseguito le indicazioni del capo del Governo cinque ex consiglieri e un ex ministro devono spartirsi l’onere di 11 milioni di euro, difficile è prevedere cosa accadrà quando si ripresenterà l’occasione.

Oramai obbedire all’azionista, in Rai, vuole dire rischiare di pagare di tasca propria.

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