Il caso Rapotez, partigiano, comunista, “nemico”: una tortura di Stato lunga 56 anni

TRIESTE – Com’è difficile chiedere scusa. Com’è difficile ammettere i propri errori. Ai bambini viene o dovrebbe venir insegnato presto ma, a volte, proprio chi dovrebbe dare l’esempio è il primo a non farlo. E una di queste volte, fatta lodevolmente rimergere dal Corriere della Sera, è quella che riguarda la storia di Luciano Rapotez, 92 anni, 56 passati in lotta con lo Stato Italiano che l’ha ingiustamente torturato e incarcerato. Tutto cominciò a Trieste una sera nel gennaio 1955. Quando Rapotez fu fermato sotto casa da poliziotti poco amichevoli che dopo avergli piantato una pistola nelle costole e tentato il trucco della «ley de fuga» («Scappa, mi dicevano, scappa! Ma mi avrebbero abbattuto dopo due passi») lo trascinarono in questura accusandolo di un delitto orrendo. Una lontana rapina avvenuta nel 1946 in una villa sul Carso, dove erano stati assassinati un orefice, la fidanzata e la domestica. Lui negò, disperatamente. Ma in quegli anni di tensione e di odio, era il «colpevole» ideale. Ex partigiano. Comunista. Un cognome che pareva slavo.

Doveva assolutamente confessare. E come avrebbero riconosciuto più sentenze, venne massacrato: cinque giorni e quattro notti di pestaggi, senza acqua, senza cibo, senza poter chiudere un occhio perché sbattuto sotto lampade incandescenti. E poi le scariche elettriche ai genitali, i pestaggi, la messa in scena di un finto suicidio. Confessò. «Ero annientato. Avrei ammesso anche d’ aver ucciso Giulio Cesare». Restò in galera quasi tre anni. Finché, finalmente, arrivò il processo. E fu assolto. Insufficienza di prove. Altri tre anni di calvario, ed ecco, anche grazie a tre testimonianze che lo scagionavano, l’assoluzione piena. Col riconoscimento del «trattamento violento», delle «sevizie», delle «confessioni estorte». Uscì dal carcere e cercò con gli occhi la moglie. Non c’ era: «Erano anni durissimi, credeva che io fossi un assassino, doveva tirar su i bambini. Aveva trovato un altro. Oggi la capisco. Allora fu durissima». Aspettò la conferma della sua innocenza in Cassazione e poi, schifato, emigrò in Germania. E ci restò vent’ anni.

Da allora Rapotez cerca se non di riavere indietro la sua vita, almeno delle scuse. Non da parte dei suoi aguzzini, che forse sono anche ormai passati come si dice a miglior vita, ma da parte dello Stato che lo ha incarcerato.

Parlare di torture, privazione del sonno, scosse elettriche ai genitali e pestaggi fa pensare oggi forse più ad Abu Ghraib o a Guantanamo che all’Italia, ma la storia di Luciano Rapotez è tutta italiana. Proprio in questi giorni il cinquantesimo rapporto annuale di Amnesty International ricorda che «se l’Italia avesse introdotto il reato di tortura nel suo codice penale» ai poliziotti condannati anche in appello per le sevizie alla caserma Bolzaneto «la prescrizione non avrebbe potuto essere applicata». Bolzaneto è la caserma degli orrori del G8 di Genova del 2001, appena 10 anni fa. E l’Italia, come torna a denunciare Amnesty International, non ha ancora riconosciuto il reato di tortura.

Dalla Germania Rapotez cominciò a scrivere a tutti: presidenti della Repubblica, capi di governo, ministri della giustizia e degli interni… Voleva quello che oggi viene giustamente concesso a tante vittime della cattiva giustizia: un modesto risarcimento e una parola, «Signor Rapotez, scusi». Ma saper riconoscere i propri errori è una virtù, una delle tante che forse all’Italia manca. L’allora ministro della giustizia Paolo Francesco Bonifacio si limitò a dire che «risulta evidente che la domanda di riparazione dei danni conseguiti alla carcerazione preventiva sia assolutamente priva di fondamento allo stato della vigente legislazione». Aveva ragione. Per le vittime di errori giudiziari all’epoca non esisteva risarcimento.

E quando finalmente la legge che prevedeva un indennizzo alle vittime dei più macroscopici errori giudiziari venne approvata, nel 1979, il ricorso di Rapotez venne respinto: troppo tardi, le torture sono ormai in prescrizione. Una beffa. Uno schiaffo che avrebbe fatto desistere i più ma che non bastò a scoraggiare il tenace friulano che, anche grazie al libro-denuncia di Giorgio Medail e Alberto Bertuzzi «Il caso Rapotez», e all’aiuto di avvocati appassionati come il milanese Stefano Taurini, ha tenuto duro facendo ricorsi su ricorsi fino a farsi riconoscere per due volte dalla Cassazione che aveva ragione lui. Ragione, ma scuse niente. Al momento finale c’era sempre un magistrato che riapriva la partita. Verdetti incredibili. Come quello in cui si legge: «Quand’anche fosse provata la commissione (della tortura) da parte dei funzionari di polizia, di quegli atti che avrebbero causato i lamentati danni, tali atti non avrebbero potuto imputarsi alla pubblica amministrazione perché non rivolti ai fini istituzionali di uno Stato democratico, sibbene ai fini personali ed egoistici di chi li pose in essere». Finché un giudice arrivò a scrivere che sì, certo, la prescrizione per il risarcimento era stata interrotta fino al 1979 dal diluvio di lettere spedite a tutti, ma dal 1979? Era caduto tutto in prescrizione di nuovo. Nel 2005, la fine di tutto, almeno del tutto giudiziario. Il ritardo nel deposito dell’ennesimo verdetto e l’ennesimo pasticcio burocratico chiusero le porte anche all’ultimo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Lo Stato Italiano non è stato quindi in grado di riconoscere per via giudiziaria i propri errori, non è stato capace di riparare a un torto fatto. Questa è una strada ormai chiusa, è una brutta, pessima figura fatta dall’Italia. Ma, dopo oltre mezzo secolo il signor Rapotez non si arrende, continua a impugnare la Costituzione italiana: «È tutto qui dentro! Tutto qui dentro!» Al risarcimento ha rinunciato. A una sentenza che gli dia ciò cui ha diritto, cioè una riparazione della magistratura, anche. Gli basterebbe una parola, parola che solo Giorgio Napolitano potrebbe dire: «Signor Rapotez, ci dispiace».

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