ROMA – Reddito (Grillo) o lavoro (Renzi) di cittadinanza? Promesse e costi alla prova dei fatti. Con la proposta di un “lavoro di cittadinanza”, Matteo Renzi sfida sul suo terreno il movimento di Beppe Grillo che del “reddito di cittadinanza” ha fatto un suo cavallo di battaglia programmatico. Stiamo parlando del sostegno pubblico, dell’aiuto a chi non ce la fa perché guadagna troppo poco o è disoccupato, un compito fino ad ora assolto (male) da una pletora di strumenti – sussidi di disoccupazione, sostegno alle famiglie, contributi regionali -, un sistema “Arlecchino” lo chiama Luca Ricolfi, che andrebbe riformato in vista di uno strumento universale più organico.
Ovvio che ogni progetto di riforma si scontri con la disponibilità finanziaria per sostenerli: di sicuro solo l’Italia e la Grecia in Europa non dispongono di un “reddito minimo” che garantisca chi vive sotto la soglia di povertà. Due strumenti a confronto, quindi, due visioni che devono essere sottoposte alla prova dei fatti, alla verifica della realtà.
Reddito di cittadinanza M5S. Con questo nome, in effetti, si deve far riferimento a uno strumento adottato solo da Alaska e Finlandia, dove scarsa popolazione e risorse petrolifere debitamente orientate al suo finanziamento, consentono un sussidio universale, destinato cioè a tutti. Quello progettato dai 5 Stelle resterebbe legato a una serie di paletti che ne circoscrivono la platea e ne subordinano l’estensione a una serie di condizioni- reddito Isee, verifiche sugli invalidi, disponibilità se disoccupati ad accettare un nuovo lavoro -. Nella formulazione grillina il piano è ambizioso, forse troppo se si immagina un reddito minimo di 780 euro al mese.
Vale a dire un costo per lo Stato di 15 miliardi l’anno, forse insostenibile per lo stato dei conti pubblici. Ma reddito di cittadinanza, tecnicamente, significa sussidio universale per tutti, e a 400 euro al mese, significherebbe un salasso insostenibile per le casse dello Stato dell’ordine di 300miliardi di euro, segnala Dario di Vico sul Corriere della Sera citando uno studio pubblicato da Stefano Toso dell’Università di Bologna. Quasi la stessa cifra (349 mld) rinfacciata dall’Institut Montaigne in Francia al candidato socialista all’Eliseo Benoit Hamon, una spesa “stratosferica” degna di una promessa elettorale che non si può mantenere.
Lavoro di cittadinanza di Renzi. Filosofia diversa (è il lavoro e non il reddito che la Costituzione si impegna a garantire per ciascuno) quella di Renzi che, però, già dal nome, indica la volontà di non lasciare ai 5 Stelle la questione elettoralmente sensibile. E’ più vicina al reddito di inclusione che è già pronto al Senato (400 euro per l’85% delle famiglie sotto i 3mila euro l’anno). Davvero poco se si pensa che in condizioni di povertà ci sono in Italia 4,6 milioni di persone: dagli attuali 1,8 mld l’anno l’ambizione è di estendere la protezione fino a 500 euro al mese per chi non arriva a 8mila euro l’anno, con previsione di spesa dell’ordine di 4,5 mld l’anno.
Il piano di Renzi punta ad allargare quel sussidio fino a trasformarlo in un «reddito di inserimento» e a comprendere tutti coloro i quali hanno redditi inferiori agli ottomila euro l’anno […] Una delle idee allo studio prevede di restituire ai lavoratori lo 0,3 per cento che oggi viene trattenuto dall’azienda per i corsi di formazione professionale: quei soldi alimenteranno un fondo «aggiornamento professionale» che ciascun lavoratore dipendente potrà spendere come crede. (Alessandro Barbera, La Stampa)