Il governo boccia l’election day: referendum e amministrative separati. Più spese, meno quorum

Il ministro dell'Interno, Roberto Maroni

ROMA – No all’election day. Il governo, per bocca del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, vuole separare il voto per le elezioni amministrative da quello per i referendum: le comunali sono state fissate per il 15 e 16 maggio, mentre le urne potrebbero riaprire il 12 giugno per i referendum. Il risultato? I quesiti referendari ne usciranno inevitabilmente più indeboliti. Infatti lo slittamento della data non aiuterebbe l’affluenza alle urne, mettendo in forse il raggiungimento dei referendum (si voterà su legittimo impedimento, privatizzazione dell’acqua e centrali nucleari).

La seconda possibile conseguenza dello “scorporo delle urne” è che lo Stato spenderà alcune centinaia di milioni di euro in più (il Pd ne ha stimati circa 300) per allestire i seggi un’altra volta nel giro di poche settimane. Secondo Maroni tenere separate le due consultazioni è semplicemente una “tradizione”.

Non la pensa così chi ha promosso a gran voce i referendum: secondo l’Italia dei Valori la differenziazione delle date rappresenta “uno spreco enorme di soldi pubblici, un furto di 350 milioni di euro agli italiani”. Per Articolo 21 si tratta di una “scelta truffaldina”.

Durante la conferenza stampa seguita al Consiglio dei Ministri del 3 marzo, Maroni ha detto di aver “comunicato al consiglio dei ministri la decisione di firmare nei prossimi giorni il decreto per l’indizione delle elezioni amministrative il 15 e 16 maggio”.

Il Ministro dell’interno ha poi aggiunto che proporrà la data del 12 giugno per lo svolgimento dei referendum: ”Il referendum si può svolgere entro il 15 giugno e l’ultima data utile è domenica 12. Spetta al Cdm la decisione, io sono per il 12” anche perché tenere separate le due consultazioni ”è una tradizione”.

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