Il punto d’intesa tra Bossi e Berlusconi si chiama semipresidenzialismo alla francese: una diarchia, che vedrebbe il Cavaliere investito dei poteri presidenziali conferiti da un suffragio popolare e un esecutivo centrale che coordini le regioni affidato – questo il progetto – a Giulio Tremonti, l’unica personalità del Pdl di cui Bossi si fidi. Un patto di ferro, quindi, per il quale il Senatur non esiterebbe a cambiare – come spesso gli è accaduto per ragioni strategiche – il suo giudizio su ogni forma di presidenzialismo. “Segnerebbe la fine di ogni libertà costituzionale”, ragionava Bossi solo qualche anno fa.
L’obiettivo del semipresidenzialismo era stato già chiaramente indicato dal ministro Maroni che solo un paio di giorni fa riconosceva nel modello francese l’equilibrio che garantisce il “giusto” potere al presidente, dove “giusto” sta, evidentemente, per circoscritto, limitato.
La strategia di Bossi è chiara: offrire a Berlusconi la tanto agognata “buonuscita” da presidente della Repubblica e garantirsi al contempo un presidente che non si sogni di mettere i bastoni tra le ruote alla locomotiva federalista.
Un disegno fin troppo ben calibrato se, per l’appunto, è proprio dalla maggioranza che arrivano i primi distinguo, se non deliberati “niet”. Nella battuta “non moriremo leghisti” c’è tutta la frustrazione nel vedere che il Pdl, ad appena un anno dalla sua inaugurazione, debba rivedere gli ambiziosi progetti di rifare nientemeno che la storia d’Italia. Ambizioni ridotte a un piccolo cabotaggio istituzionale a rimorchio del partito socio di minoranza della coalizione di governo. Che non è nemmeno presente in metà della penisola.