La notte di Ruby: Capecelatro il poliziotto che ruppe il silenzio. E Don Verzè racconta Berlusconi-Gesù

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 23 Marzo 2011 - 16:16| Aggiornato il 24 Marzo 2011 OLTRE 6 MESI FA

MILANO – Un uomo qualunque, uno sconosciuto funzionario di polizia che per senso del dovere non si fa “i fatti suoi” e diventa una sorta di “eroe per caso” eroe almeno del rispetto delle regole. E un uomo noto, molto noto, che parla come Gesù Cristo. Due figure molto distanti, antitetiche, che emergono dalle pieghe meno note della cronaca italiana e della biografia berlusconiana, strettamente intrecciate tra loro. Di Ruby e del Rubygate si è detto e scritto di tutto, come della miniatura del Duomo che ha colpito Berlusconi, ma poco si sa e poco si è detto degli uomini che facendo il loro lavoro si sono imbattuti nelle serate di Arcore e poco o nulla si è saputo del vero stato d’animo del premier dopo che fu colpito da Massimo Tartaglia.

Retroscena marginali ma poi mica tanto. Retroscena su cui un libro e un film aprono uno spiraglio, mostrando uno spaccato di verità. Sodoma, il libro di Paolo Colonnello e Leonardo Coen, giornalisti de La Stampa e di Repubblica, mette in ordine tutti i documenti usciti confusamente nei mesi scorsi sul caso Ruby. Ed è sfogliando le pagine di questo libro che ci s’imbatte nella figura dell’eroe per caso, dell’ingranaggio che fa funzionare o inceppare, a seconda dei punti di vista il sistema. Ingranaggio, rotellina, cioè un uomo mosso solo e sinceramente dal senso di giustizia e del dovere. Quest’uomo è Edmondo Capecelatro, primo dirigente del commissariato Monforte, un poliziotto.

Se un presidente del Consiglio chiama in Questura per far rilasciare una ragazzina spacciandola per nipote di Mubarak e una consigliera regionale si presenta nottetempo a prelevare la suddetta, la notizia, almeno fra colleghi, non può restare a lungo segreta. Soprattutto se sette sono le telefonate da Palazzo Chigi a Pietro Ostuni. Sette, di cui sei dall’utenza di Berlusconi e solo una da quella del capo scorta. Sette e non una sola come purtroppo ci si sta abituando a scrivere. Come cantava De Andrè “una notizia un po’ originale, non ha bisogno di alcun giornale, come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca” e così della “nipote di Mubarak” in molti sapevano. Come tutti i pettegolezzi certo non tutti i dettagli della vicenda erano noti, ma grosso modo i fatti erano di dominio pubblico tra i funzionari della Questura di Milano. Ma nessuno si era preso la briga di riferirlo ufficialmente in Procura. Silenzio dal Questore e da tutti gli altri. Stavano tutti quieti, prudenti. Ed è qui che entra in gioco Edmondo Capecelatro. Capecelatro è, come abbiamo detto, il primo dirigente del commissariato Monforte, e come quasi tutti i “buoni” delle storie poliziesche, è prossimo alla pensione. Gli mancano solo sei mesi. La prudenza gli suggerirebbe di starsene buono, la storia in questione riguarda il presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Non è roba da poco. Ma Capecelatro è un poliziotto, è un uomo che agisce secondo giustizia e non secondo prudenza. Va in Procura e denuncia tutto.

L’antagonista, Berlusconi, viene invece raccontato e svelato da un uomo a lui molto vicino. E a svelarlo è il chiacchieratissimo film “Silvio Forever”. Il film di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, scritto da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, una sorta di blob biografico sulla vita del premier, racconta la vicenda umana del Cavaliere senza un punto di vista critico o agiografico ma mettendo semplicemente insieme pezzi della sua vita. Nel tracciare questo racconto, nella pellicola, ci sono anche voci amiche di Berlusconi, come don Luigi Verzè. In uno straordinario passaggio Verzé ricorda lo scoramento del premier dopo esser stato ferito con il lancio di una miniatura del Duomo sul volto: un uomo che sanguina e si rivolge al Cielo: “Padre! Perdonali perché non sanno quello che fanno”. Aneddoto che, nelle intenzioni di don Verzé, darebbe lo spessore caritatevole dell’uomo. Lo racconta quindi facendo intendere che il Cavaliere sapeva quel che diceva e lo diceva a buon titolo. Berlusconi usò le parole di Gesù rivolgendosi al cielo, al cielo suo “genitore”. Ricorda davvero bene don Verzè, davvero andò così? Davvero Berlusconi  si disse martire e novello Cristo? L’unto del signore, per usare parole d’altri. Il racconto di don Verzé può anche suscitare l’effetto opposto rispetto a quello per cui era pensato, può produrre inquietudine incredula in chi apprende quel paragonarsi a Dio. Immagine inedita e, se vera, tragicomica del nostro Premier.