Come sempre a Genova, quando c’è una celebrazione storica in corso, il cielo manda giù un diluvio. Diluviava il 12 ottobre 1992, Cinquecentenario della Scoperta d’America da parte del “zeneise” Cristoforo Colombo e diluvia il 5 maggio dell’inizio per le celebrazioni dell’Unità d’Italia, festeggiate dal presidente Giorgio Napolitano allo scoglio di Quarto. Da lì salparono Garibaldi e i suoi mille garibaldini in camicia rossa. Ma il dubbio di questo anniversario, targato 2010, è che da questi scogli (e virtualmente dal potere in Liguria) siano salpati definitivamente Claudio Scajola, l’imperatore d’Imperia e altri protagonisti della stringente attualità politico giudiziaria genovese e ligure. Mentre Scajola, ministro dimesso per la seconda volta, torna a casa, sulla collina di Imperia-Oneglia “a coltivare asparagi”, come dice tra le lacrime sua moglie, la storica dell’Arte Maria Teresa Verda, dal panorama evaporano altre due figure del più rilevante establishment genovese e ligure, tanto per intenderci quello che teneva un collegamento stretto tra Genova e Roma.
La prima figura che stacca sulla scia di Scajola è Giuseppe Profiti, ex direttore generale della Regione Liguria, ex vice presidente dell’Ospedale Galliera, oggi presidente dell’ospedale vaticano del Bambin Gesù, membro del cda dell’Università Cattolica, dove ha preso il posto di Camillo Ruini, uno dei rampanti della finanza vaticana, fedelissimo del cardinale Tarcisio Bertone, che se lo è portato a Roma due anni fa. Il Tribunale di Genova lo ha condannato a sei mesi per lo scandalo di Mensopoli, che due anni fa stava per far crollare la giunta comunale retta dalla sindaco Pd Marta Vincenzi. Che ci azzeccava il rigido e impeccabile Profiti con le mense comunali e con quel processo, che nel 2008 lo aveva perfino trascinato agli arresti domiciliari? L’accusa e la condanna sono per avere privilegiato una cordata di piccoli imprenditori della ristorazione, che avevano assaltato il Comune e l’Ospedale Galliera, confidenti proprio in Profiti e in alcuni uomini di fiducia della signora sindaco. Scandalo enorme vedere un fedelissimo di Bertone e del Vaticano finire in galera, passare dall’extraterritorialità del Bambin Gesù alle manette (virtuali) della Procura genovese.
Profiti aveva urlato la sua innocenza e Bertone lo aveva perfino accolto nelle sue benedicenti braccia, finita la detenzione, senza battere ciglio, raccomandandosi anche che non perdesse più un solo giorno di lavoro all’ospedale. Tutti sicuri dell’assoluzione, quando fosse arrivato il processo. Invece, proprio nei giorni duri di Scajola, arriva la stangata, condannato lui e condannata la cricca che trattava gli appalti della ristorazione, all’ombra apparentemente inconsapevole di Marta Vincenzi.
Il verdetto trancia il rapporto che era rimasto tra Profiti e Genova, dove l’alto dirigente aveva mantenuto un incarico di docente universitario alla facoltà di Scienze Politiche. Ma soprattutto getta un’ombra sulle scelte del potente cardinale Tarcisio Bertone, che proprio dall’arcidiocesi di Genova aveva spiccato il volo per la segreteria di Stato vaticana, dopo avere puntato su uomini come Profiti, cui aveva affidato l’ospedale Galliera, il secondo nella geografia sanitaria di Genova, eretto dal mecenatismo del Duca omonimo e affidato in secula seculorum alla guida del cardinale arcivescovo in carica.
Ma c’è un altra scelta vaticana che le recenti vicende fanno in qualche modo vacillare o per lo meno discutere a Genova e in Liguria, sempre nei giorni difficili della caduta di Claudio Scajola, anche se, in questo caso, le vicende giudiziarie sono molto sullo sfondo, ben più degli assegni di Anemone e delle mense della cricca genovese.
Essa riguarda proprio la terza figura che “stacca” dalla Liguria nell’ideale equipaggio tristemente guidato dall’ex ministro: Marco Simeon, forse oggi uno dei liguri più potenti e introdotti nei meccanismi segreti che legano la finanza al Vaticano e, addirittura, alla Rai.
Il trentatreenne Simeon, enfant prodige di Sanremo, figlio di un benzinaio, cresciuto praticamente nel grembo dell’ex segretario del mitico cardinale Giuseppe Siri, l’ex vescovo di Ventimiglia Giacomo Barabino, oggi in pensione, si è platealmente dimesso nei giorni scorsi da una associazione culturale di nome Leonardo da Vinci che aveva sede a Sanremo e che costituiva il fulcro di una potentissima lobby clericale-politica, creata dallo stesso Simeon.
Le ragioni formali delle dimissioni che l’enfant prodige ha annunciato all’ombra del Casinò era l’overdose di incarichi piovuti sul suo capo dopo la nomina a direttore delle relazioni istituzionali e internazionali della Rai, che si sommava ai suoi ruoli di superconsulente di Cesare Geronzi, tra Capitalia e Mediobanca (chissà ora con le Assicurazioni Generali?), di consulente vaticano, non solo per la finanza ma anche per altre posizioni vicine al vescovo Mauro Piacenza, genovese guarda caso e oggi segretario della potentissima Congregazione del Clero ( il ministero degli Interni di OltreTevere).
La ragione più credibile dal distacco di Simeon dalla “Leonardo da Vinci”, sua geniale creatura di potere trasversale sull’asse con Roma e e quindi dalla Liguria, sarebbe invece una inchiesta giudiziaria della Procura sanremese che ha coinvolto alcuni membri della stessa Associazione, arrestati per il solito scandaletto ricorrente sul Casinò: corsi più o meno truccati per scegliere i nuovi croupier. Meglio prendere il largo da tutto questo, deve avere pensato il giovane Simeon, cui le vicinanze con certi spifferi mefitici del sottobosco sanremese non giovano certo.
Non immaginava il giovane rampante che il suo distacco coincidesse con la traumatica caduta di colui che riteneva la stella polare del potere in Liguria, l’imperatore di Imperia, il ministro che lo aveva tenuto a una certa distanza, misurandone da cauto postdemocristiano la potenziale rivalità ascendente nella triangolazione tra Vaticano, Rai e potere politico. Simeon troppo furbo per schierarsi politicamente, è sempre stato amico della Destra, ma mai schierato e forse non immaginando che il suo potere romano sarebbe cresciuto al punto di sfiorare le vette della Rai e delle banche, guardava a Scajola come al big one sulla scia del quale mettersi ordinatamente. Non si sa mai.
Ora che Scajola è caduto per la terza volta e tutto il suo ramificatissimo impero ligure vacilla, anche Simeon si è allontanato dalla Liguria, che, appunto, sotto il diluvio sembra perdere di vista tutte le sue sponde sulla Destra dello schieramento politico, inclusi anche gli atipici come Profiti, un tecnico al servizio di Bertone e Simeon, un enfant prodige al servizio dello stesso potere vaticano, ma anche della sua traduzione terrena in Rai e nelle casseforti delle banche.
Scajola non ha eredi in Liguria. La Destra non ha cavalli di ricambio. L’unico leader possibile, il deputato Sandro Biasotti è stato appena sconfitto alle elezioni regionali da Claudio Burlando e aveva annunciato un suo ritiro da posizioni di comando. Ci ripenserà? L’unica alternativa potrebbe essere il professor Enrico Musso, deputato Pdl molto autonomo, capace di non votare per Berlusconi il legittimo impedimento e di prepararsi a un assalto trasversale al Comune di Genova, nelle prossime elezioni, ma inviso alla truppa scajolana genovese, oggi dispersa e impaurita dalla sconfitta del capo.
Mentre l’ex ministro risale mesto la collina di Imperia tremano luogotenenti e beneficiati di un potere dinastico che aveva occupato ogni spazio nel Ponente ligure, estendendo i suoi rami fino alle stanze segrete delle istituzioni bancarie di Carige e ai consigli di amministrazione delle aziende di Finmeccanica. Un fratello di Scajola, Alessandro è il vicepresidente di Carige, un nipote, Marco, è il più votato nelle ultime regionali, undicimila voti. Ma su tutto questo, per ora cade, il diluvio e ora anche Simeon e Profiti sono lontani.