ROMA – “Per la prima volta in vent’anni non so dirti come andranno a finire le elezioni“: a parlare è un vecchio osservatore della politica italiana. È vero: questa volta, per tante ragioni, nessuno può dire come andrà a finire. Poter scegliere fra cinque opzioni (sei se ci mettiamo Fare per Fermare il declino) invece di due implica una montagna di variabili impazzite. Alle quali si aggiunge il meccanismo elettorale al Senato, i premi di maggioranza su base regionale, pensati da Calderoli (il padre del Porcellum) per balcanizzare qualunque risultato elettorale. Può un battito d’ali di Giannino in Lombardia provocare un terremoto a Roma? Sì. Basta uno 0,1% in più o in meno per spostare 15 senatori da una parte o dall’altra.
Non aiuta il fuoco incrociato dei sondaggi che sparano in queste ore gli ultimi colpi prima che si entri nel silenzio pre-elettorale imposto dall’Agcom. Lo sguardo d’insieme ci dice che il distacco fra la coalizione di centrosinistra guidata da Pier Luigi Bersani e il centrodestra di Silvio Berlusconi è un “x” compreso fra 1,7 punti percentuali e 7,5, un divario che quasi tutte le rilevazioni hanno visto diminuire nell’ultimo mese e mezzo. Con il Pd che è collocato fra il 29 e il 32% e Sel fra il 3,5 e il 4,5%. Il Pdl è valutato fra il 18,5 e il 23%, la Lega Nord fra il 4,9 e il 6%, il resto dei partitini fra il 3 e il 4%.
Quasi tutti danno il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, quotato fra il 13 e il 16,5%, come terza forza davanti alla coalizione di centro guidata da Mario Monti, stimata fra il 12,5 e il 16%. Ma Grillo è in costante crescita, Monti è in lieve calo. In quinta posizione c’è Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia, che balla fra il 3,5 e il 5%. In ultimo c’è Fare di Oscar Giannino, che oscilla fra 1 e 1,9%. Decideranno gli indecisi, che ora sono pesati fra il 25 e il 34% degli elettori, un numero che aveva toccato punte del 40% e che tutti gli istituti danno in calo.
Questa era più o meno la fotografia di oggi. Ma riavvolgiamo il nastro di quasi due mesi e torniamo in un pomeriggio romano, quello del 12 dicembre, in cui Berlusconi presentò l’ultimo libro di Bruno Vespa ma soprattutto se stesso. Di lui, per più di un anno, si erano viste solo rare diapositive da Malindi, dove il leader definito dalle sue care amiche “depresso” si ritemprava nel resort del fido Flavio Briatore. La sua conferenza stampa fu lunga e riuscì a dire tutto e il contrario di tutto. In sintesi, dichiarò il suo “ritorno in campo”, poi precisò che ci stava ancora pensando “magari stanotte cambio idea”, quindi offrì il posto di leader del centrodestra a Monti: “Se lui accettasse, sono pronto a ritirare la mia candidatura”. A molti sembrò di aver visto le macerie di quell’uomo che per vent’anni aveva “regnato” sulla Seconda Repubblica. Anche Vespa non resistette a prenderlo un po’ in giro: “È un discorso complesso ma forse prima di notte riusciremo a capirlo”.
I sondaggi di quei giorni dicevano che il centrosinistra, fresco di primarie, sfiorava il 43%, con il Pd quasi al 38% e Sel oltre il 5%. Il Pdl era al 18%, la Lega Nord al 4%. Fatte tutte le somme, fra i due poli c’era un abisso di quasi 20 punti.
Berlusconi era dato per finito, i commentatori avanzavano seri dubbi sulla sua lucidità e neanche lui sembrava convinto delle sue parole. Ma aveva capito che non poteva lasciare ad Angelino Alfano la campagna elettorale per le politiche. In ballo c’era l’esistenza del Pdl, le sue sorti processuali e il destino del gruppo Mediaset da lui fondato. E, come nell’autunno del 1993, aveva capito anche che non poteva lasciare fare agli altri, ai cocci di un partito diviso fra ex An ed ex Pdl che da mesi non parlavano più con la Lega, ritiratasi oltre Po in un isolamento, disturbato solo dalle inchieste dei pm su questa o quella ruberia.
Ha iniziato con una lenta ma inesorabile avanzata nei palinsesti televisivi, fra le sviolinate di Barbara D’Urso e lo scontro con… Massimo Giletti. Non si è scomposto per la “salita in campo” di Monti, anzi è riuscito a ricucire con la Lega guidata da un Maroni che non gli è mai stato amico. Quando il 10 gennaio si buttò nell’arena di Michele Santoro, in molti rimasero incollati alla tv a godersi lo show di un potente in declino che anche a chi lo ha sempre odiato sembrava simpatico. Come una squadra che perde.
Un mese dopo, Berlusconi ha dimostrato che a darlo per morto ci si casca spesso ma si sbaglia sempre. Forse non è a un passo dalla rimonta come dice la sondaggista del suo “cerchio magico” Alessandra Ghisleri (Euromedia Research lo vede a 1,7 punti da Bersani), ma è certo che il successo del suo rientro rende incertissimo l’esito delle elezioni.
Chi i sondaggi li fa difende il suo lavoro e dice che le percentuali ormai si sono cristallizzate: non ci saranno sorprese il 24 e 25 febbraio. Parla per tutti Nicola Piepoli a La Stampa: “Le rispondo con una metafora: l’Italia è come quelle superpetroliere da trecentomila tonnellate. A farle virare, occorre molto spazio e tempo. Non sono mica un motoscafo”.
Non sarà un motoscafo, ma anche una grande nave può fare piccole correzioni di rotta, e basterebbero per cambiare del tutto l’esito del voto. Basta che Giannino (che rosicchia quasi tutti i suoi voti a elettori di centrodestra) confermi il 4% del quale lo accreditano in Lombardia per rovinare la festa a Berlusconi e far vincere Bersani nella regione decisiva per il Senato. Grillo può prendere il 13 come il 19%. Un 2% in più a Ingroia può rivelarsi fatale per il centrosinistra. E poi c’è Monti, che può essere votato da tutti gli indecisi a destra del Pd e a sinistra del Pdl: una sua variazione del 2% in più sposta l’ago della bilancia.
“La risposta è dentro di te, ma è sbagliata” diceva Corrado Guzzanti nei panni del guru “Quèlo”. Parafrasandolo, si può dire che la risposta alla domanda “chi vince?” È dentro quel 10% di indecisi che alla fine a votare ci andrà, ma non la sappiamo.
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