Sondaggio, il 40%: Fini fregato dal cognato. I fatti, come è andata in 4 mosse

di Mino Fuccillo
Pubblicato il 27 Settembre 2010 - 15:24 OLTRE 6 MESI FA

Gianfranco Fini

Sondaggio di Blitz: per il 77 per cento di coloro che si sono pronunciati la casa di Montecarlo è di Giancarlo Tulliani, è “il cognato” quello che in ultima ipotesi in qualche modo se l’è comprata. Solo il 23 per cento pensa che dica la verità che cioè non sia lui il proprietario. Contemporaneamente il 40 per cento di chi si è espresso con un voto via web pensa che Gianfranco Fini abbia detto la verità, che cioè sia stato “fregato”, ingannato dal cognato. Per il 60 per cento invece il presidente della Camera sapeva ed è stato in qualche misura “complice”. Sondaggio artigianale, “campione” d’umore e non campione scientifico e statisticamente bilanciato e corretto. Però questo “umore”, anche se sovra dimensionato dalle modalità del sondaggio, non deve essere molto distante dalla “percezione” reale della gente, della pubblica opinione sull’affare Montecarlo: a Tulliani non crede quasi nessuno, a Fini invece un po’ meno della metà degli italiani. Seguendo lo “spirito e non la lettera” della risposta registrata al sondaggio, ecco come può essere andata.

Punto primo, primo fatto e non ipotesi od opinione: Tulliani sa che questa casa c’è, sa che è in vendita, che An la vende. E non può che averlo saputo “in famiglia”, non ci piove. “In famiglia” e non altrove perchè Tulliani non fa parte di An. Che sia andata così lo ha ammesso due volte Gianfranco Fini quando altrettante volte ha detto che l’acquirente gli fu “segnalato” appunto da Tulliani. E’ Tulliani dunque che trova il compratore.

Punto secondo, non un fatto ma una ragionevole possibilità: Tulliani trova il compratore che non è lui stesso ma che certo Tulliani conosce.

Punto terzo, un fatto provato e fuori discussione: Tulliani prende in affitto quella casa.

Punto quattro che è la somma logica dei primi tre: Tulliani è mediatore di un affare che appare ragionevole e comodo ad An, la casa viene venduta come An voleva, ad un prezzo che forse è troppo “scontato” e forse no. Su questo i dati non sono chiari e su questo infatti, e non su altro, indaga la Procura di Roma. Affare che appare ragionevole e utile al compratore chiunque esso sia. Affare che risulta utile allo stesso Tulliani che nella casa va ad abitare. E’ quindi più che ragionevole suppore che “l’affare” comprenda e preveda anche la concessione in affitto. Insomma Tulliani fa comprare e vendere con la clausola non scritta ma pattuita che lui ne ricaverà la concessione in affitto.

Deve essere andata così, può essere andata così, è la ricostruzione più plausibile. Se è andata così infatti Tulliani non commette l’ingenuità clamorosa di comprarsi e intestarsi la casa di An, dice una mezza e incompleta verità quando giura che il proprietario non è lui. Però è solo parte della verità perchè è Tulliani che conduce l’affare. Per questo Tulliani non può dire tutto, per questo Fini non si fida, in privato e in pubblico di Tulliani.

Se questa è la storia e tutto, fatti accertati e collegamenti logici tra i fatti, lasciano pensare che la storia sia proprio questa, allora ecco le “leggerezze” di Fini. “Leggerezze”, il termine usato dal presidente della Camera nel suo video.

Leggerezza numero uno: accettare che Tulliani, il cognato, si inserisca in qualche modo nella vicenda. Insomma non rispondere a Tulliani che suggerisce il compratore: “Grazie, ma non è il caso che tu te ne occupi”. Reazione dovuta e mancata. Anche nel caso non vi fosse al momento nessuna ragione per sospettare di nulla.

Leggerezza numero due: scoprire che Tulliani in quella casa ci abita e limitarsi alla “colossale arrabbiatura. Doveva esigere allora, subito, che Tulliani lasciasse la casa. Non fosse altro che per elementare istinto di auto conservazione di immagine pubblica.

Leggerezza numero tre: non inserire nei suoi “otto punti”, quelli con cui Fini replicò ai primi attacchi di stampa, il “punto nove”: appunto, fuori Tulliani da quella casa. E non motivare subito questo “punto nove” con l’ovvio argomento che la mano sul fuoco ciascuno la può mettere solo su se stesso e non sui parenti.

Leggerezza numero quattro: metterci un mese e passa per maturare il dubbio.

Fin qui la storia della casa, storia nella quale probabilmente non c’è reato ma quasi sicuramente c’è un cognato troppo furbo e un Fini troppo leggero.