Stipendi pubblici all’abruzzese: tutti uguali al più pagato

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 1 Giugno 2011 - 15:52 OLTRE 6 MESI FA

L’AQUILA – Se non fosse vero sarebbe da ridere. Esiste in Italia una Regione dove gli stipendi di tutti sono equiparati al livello del collega più pagato. Un luogo fatato, dove tutti guadagnano come i loro colleghi e non esistono invidie. Una Regione che ha adottato questa equiparazione retributiva attraverso una serie di leggi emanate dal consiglio regionale. Un paese dei balocchi! Mica tanto, perché quella Regione, l’Abruzzo, dopo aver fatto le leggi ha fatto anche i conti e ha scoperto che grazie a questo splendido principio d’uguaglianza naviga veloce verso la bancarotta. E allora che si fa? Si modificano le leggi. Macché, tutti contrari, i diritti acquisiti non si toccano. E allora la Regione fa ricorso contro se stessa alla Corte Costituzionale sperando che questa cancelli quelle sciagurate leggi. Se non fosse vero, sarebbe da ridere.

I 1300 dipendenti regionali abruzzesi devono benedire la Ria, Retribuzione individuale di anzianità. E con lei una raffica di leggine che il Consiglio regionale ha approvato negli ultimi anni, riesumando questa indennità contrattuale ormai dimenticata nel resto d’Italia. Un tempo ai dipendenti pubblici italiani veniva corrisposta una indennità di anzianità. Ma a causa delle decine di contratti diversi, moltiplicati per i rinnovi nel tempo, ciascuno si è ritrovato a guadagnare una cifra diversa dagli altri, anche a parità di anzianità. Del resto, e non a caso, la voce in busta paga si chiamava “Retribuzione individuale di anzianità”. Individuale, appunto, non collettiva. Nell’ultimo decennio, la Ria è stata accantonata e nei nuovi contratti non compare più, sostituita da altre indennità forfettarie. Ma i dipendenti che l’avevano maturata la conservano. Questo è quello che accade in tutta Italia, ma qualche hanno fa l’Abruzzo ha ritenuto questa disparità di trattamento economico un’ingiustizia e ha deciso che la situazione andava risolta.

Non è giusto che ci siano retribuzioni diverse a parità di grado, mansioni e anzianità. La questione era stata sollevata da settanta dirigenti assunti con un mega concorso. Arrivando da amministrazioni diverse, si portavano dietro indennità eterogenee. Il Consiglio varò quindi, per sanare la situazione, una prima “norma di perequazione” che consentiva a ciascun dirigente di ottenere l’indennità più alta tra quelle dei colleghi. Inventando così la ricetta dello stipendio all’abruzzese. Non una media tra le diverse retribuzioni, ma tutte equiparate alla più alta. Generosi. Avvocati e sindacalisti si lanciarono quindi nella caccia della busta paga più ricca, quella che avrebbe ingrassato di più gli stipendi di tutti, fino a trovare un vecchio e generoso contratto dei segretari comunali. Che fu applicato a tutti, garantendo il pagamento degli arretrati più l’adeguamento degli stipendi per il futuro, fino alla pensione. Ma se questa norma vale per i dirigenti non si possono certo lasciare le differenze di trattamento per le altre categorie. E così dopo una prima leggina ne arriva una seconda, poi una terza e così via allargando ogni volta la platea dei beneficiari. Fino al 21 novembre 2008 quando, mossi a compassione, i consiglieri regionali di destra e sinistra approvano con voto bipartisan un’ultima e definitiva norma di perequazione, che consente a tutti i dipendenti, nessuno escluso, di farsi alzare lo stipendio.

Novelli Robespierre, difensori del principio di eguaglianza (retributiva), modello di attenzione politica alle esigenze dei lavoratori. Debolini però in matematica. Nessuno, evidentemente, si pose il problema del costo che queste norme comportavano. Distratti. Fino a qualche giorno fa quando l’assessore al personale Federica Carpineta ha deciso di fare i conti. E mal gliene incolse. Con 800 ricorsi pendenti su 1300 dipendenti, “alla Regione questo assurdo privilegio slegato dal merito potrebbe costare 18 milioni di euro, mandandoci in dissesto finanziario”. La cifra è impressionante, ma i contabili hanno precisato che è stimata per difetto perché il meccanismo diabolico della rivalutazione può proseguire all’infinito: se domani assumono un nuovo dipendente con un’indennità più alta, tutti gli altri milletrecento possono ottenere un nuovo aumento. All’infinito. I tecnici hanno poi scoperto che nel tempo, soprattutto per i dipendenti provenienti da altri enti come i vari consorzi sparsi in Abruzzo, le buste paga contengono indennità Ria “gonfiate” da 700 euro al mese anche per personale giovane, dunque su quelle voci gonfiate si calcolano gli aumenti. Una tragedia.

Ma la storia è ancora più ricca perché, come si dice, non finisce qui. Quando l’assessore ha proposto l’unica cosa sensata, cioè l’abolizione delle leggi folli, è stata zittita da consiglieri regionali e sindacati: i diritti acquisiti non si toccano. Strano concetto, strana idea della gestione della cosa pubblica e dei diritti quella che per non perdere un aumento è disposta a mandare in bancarotta un intero sistema. E come nelle migliori tradizioni italiche ecco pronta una bella commissione per cercare una soluzione. In attesa della soluzione che non c’è, perché o si elimina la legge o i conti non tornano, la Regione spera nel miracolo. Miracolo che ha le fattezze della Corte Costituzionale a cui la Regione si è rivolta perché dichiari illegittima la norma del 2008. Riassunto: una Regione fa una legge, anzi una serie di leggi, che portano potenzialmente al dissesto finanziario, quando se ne accorge, con colpevolissimo ritardo, non avendo coraggio di abrogare la norma dannosa ma popolare, chiede alla Corte Costituzionale di cancellare lei le leggi in questione perché incostituzionali. Senza parole. E il motivo dell’incostituzionalità, addotto dalla regione stessa, sarebbe che fu approvata il 21 novembre 2008 da un Consiglio regionale già sciolto e decaduto, dunque impossibilitato a farlo. In quel novembre il consiglio era in effetti decaduto, ma si era guarda caso in campagna elettorale. E, chissà come mai, all’epoca nessuno si accorse che il consiglio non poteva legiferare, come nessuno si prese la briga di fare due conti, così come oggi nessuno ha il coraggio di assumersi la responsabilità di dire che è stata fatta una sciocchezza. Lo stipendio all’abruzzese è servito.