I test, gli insegnanti di sostegno, le mamme e i sindacati: la scuola “picconata”

Negli ultimi cinque anni la “popolazione scolastica”, cioè il numero di ragazzi e ragazze, bambine e bambini che vanno a scuola è aumentato dell’uno virgola due per cento. Nello stesso periodo il numero degli scolari ufficialmente colpiti da qualche “disabilità” è aumentato del 12,3 per cento. Dieci volte di più. Nascono per una calamità nazionale dieci volte di più di bimbi e ragazzi disabili o vengono con leggerezza e opportunismo riconosciuti e classificati come tali ragazzi e bimbi che non lo sono? Mettiamo pure che ci sia più attenzione e cultura, sensibilità e conoscenza nel riconoscere le disabilità: un raddoppio, una triplicazione della percentuale si spiega anche così ed è spiegazione buono e giusta. Ma una moltiplicazione per dieci? In quindici anni i docenti di sostegno agli alunni disabili sono aumentati da 35 mila ad oltre 90mila. Il maggior incremento e il maggior utilizzo di questo tipo di docenti è nelle Regioni del mezzogiorno. E’ peccato mortale, malizia maligna pensare che i due fenomeni si sposano e si alimentano reciprocamente? Che la triplicazione dei docenti di sostegno sia una forma di “welfare” per gli insegnanti e non per gli alunni. E’ bestemmia pensare che il “docente di sostegno” (si diventa tali con un solo semestre aggiuntivo all’università, con sole 400 ore di corso complessive) sia un modo, una strada, spesso una scorciatoia per arrivare alla cattedra? Scorciatoia spianata e asfaltata dalla politica e dai politici di “territorio”? I dati sono quelli di Tuttoscuola, il dubbio è quello del buon senso. Eppure non c’è telegiornale, anche quelli governativi, in cui non compaia una mamma, un assessore, un sindacalista che lamenta la carenza dei docenti di sostegno. Il Corriere della Sera conia la formula “I furbetti del sostegnino”, non sembra sia solo un titolo giornalistico.

In Spagna il ministro dell’Istruzione propone che agli alunni più bravi siano offerte in premio e stimolo ore di lezione in più. Immediata reazione in Italia di mamme, assessori, sindacalisti, sociologi e pedagogisti: sbagliato perchè così si crea disuguaglianza, si rompe la regola del tutti uguali. L’essere più bravi degli altri non deve costituire occasione per un premio, il merito è l’anticamera e l’incubatrice del privilegio: questa la pronta risposta italiana.

In quasi tutte le Facoltà di Medicina in Italia aspiranti studenti e professori lamentano la selezione all’ingresso (le Facoltà sono a numero chiuso) effettuata con i test, insomma i quiz. Si sostiene che le domande contenute nei test non sono “attinenti”, cioè riguardano la cultura generale e non quella medica. Sembra ovvio che un futuro medico possa non sapere chi è Garibaldi o cosa è stato Katrina. Sembra, ma non è. A parte il corto circuito logico per cui se le domande fossero solo “attinenti” a studiar medicina sarebbero ammesso solo quelli che hanno giocato al piccolo medico, i test misurano o dovrebbero misurare lo spessore culturale del candidato, la sua pre condizione ad essere professsionista, non la sua insondabile “vocazione” alla medicina. Ma è vero che i test sono un terno al lotto e che non misurano altro che la buona sorte del candidato. Infatti la selezione dovrebbe avvenire non sui test ma sui titoli di studio. Ma selezione sui titoli di studio, cioè sul diploma, non si può fare. Perchè il 98,5 per cento degli studenti supera l’esame di maturità e perchè le commissioni di esame regalano spesso e volentieri buoni voti. Quindi dei diplomi non ci si può fidare. E ci si accorge quindi che l’intero percorso di formazione scolastica ha smarrito, non dispone di parametri di valutazione del merito. Colpa della scuola? Non proprio, visto che fenomeno analogo investe tutta la società e che la stessa società, le mamme, i sindacalisti, gli assessori, i sociologi e i pedagogisti, per non dire di psicologi e assistenti sociali, rifuggono come la peste la griglia di merito dovuqnue sia, dalle elementari fino all’università.

Tre esempi di come la scuola italiana non va e non c’è se di scuola vera si parla. Non va e non c’è, d’intesa e in complicità con i suoi “clienti” (le famiglie, gli studenti), d’accordo e in lavoro comune con i suoi operatori (insegnanti e tutta o quasi la cultura diffusa), in comunanza di interessi con la politica soprattutto locale che “vende” il successo scolastico in cambio di consenso. E la politica nazionale? La destra di fronte al problema si acquatta e si defila: proclami al merito ma sostanziale disinteresse per la scuola pubblica. La sinistra invece è in campo, sempre a difesa dell’ora  in più, dell’insegnante in più, anche quando sono a sostegno della spesa pubblica e di nulla d’altro. Sempre in campo la sinistra a difesa del tutti uguali al livello più basso e sempre ad abbattere “barriere”, anche quando sono sfondate e ad impedire che si selezioni e soprattutto si misuri davvero il merito. Poi succede che i sindacalisti più accaniti e le mamme più combattive, insomma i Cobas formali e informali della scuola, votano Lega o Forza Italia. Se non ci credete guardate i dati sugli iscritti Fiom che votano Bossi. Ma questa è un’altra storia, anche se fa parte della stessa storia.

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