La riforma del Patto di stabilità, ineludibile dopo la crisi greca, accenderà i riflettori sulla consistenza del debito pubblico, parametro che ha visto l’Italia, sempre e molto, divergente rispetto al livello massimo consentito. Bisogna quindi intervenire, ed in fretta, per impedire che la speculazione percepisca il paese come una preda e lo aggredisca, come è avvenuto con la Grecia. Il tempo che il ministro Guido Carli aveva, con lungimiranza, conquistato per il nostro paese, è scaduto.
Una manovra che si ponga l’obiettivo di contrastare l’eccessivo debito pubblico non può eludere il tema della crescita. Il debito pubblico viene infatti espresso, oltreché in miliardi di euro, in rapporto al Pil. L’aumento dello sviluppo ne riduce quindi il peso ed investimenti accurati possono avere effetti molto positivi.
Per questo è necessario anche un prelievo sulla ricchezza. Altrimenti la manovra risulterà insufficiente, squilibrata ed iniqua. Ben diverso potrebbe essere, a parte il merito delle specifiche disposizioni, il giudizio complessivo di sindacati e opposizione se, a fianco dei capitoli su riduzione degli sprechi e contrasto alla evasione, ci fosse la proposta di una leggera imposta patrimoniale (3 per mille sulla ricchezza detenuta dal dieci per cento della popolazione non destinata ad attività produttive) . Molto di questa imposta graverebbe però sulle abitazioni, che sono già massacrate da un gravame fiscale imponente e sui cui proventi i proprietari, quando onesti i privati, sempre gli enti e le aziende, pagano già le normali imposte sul reddito.
Meglio pensare a una ulteriore tassazione del 5 per cento sullo scudo fiscale e ancor meglio a come tassare le plusvalenze finanziarie, alla cui origine sono molte delle disfunzioni che hanno originato l’attuale crisi. Oggi chi specula in Borsa, e guadagna, paga un semplice 18 per cento su quel guadagno. Il suo vicino di casa, che si alza alle cinque del mattino per aprire il suo bar all’alba, paga l’aliquota marginale e ci vuole poco ad arrivare alla aliquota massima del 45 per cento, ovviamente se uno denuncia tutto, cosda che nel caso del bar può giustificare qualche perplessità. Ma il vicino accanto, che lavora in banca, i soldi delle tasse non li vede nemmeno: glieli tolgono dalla busta paga prima ancora di consegnargliela.
La manovra sarebbe più equa e soprattutto ci sarebbe lo spazio per agire, oltreché sul deficit (manovra netta), anche sulla crescita (manovra lorda), per dare al debito il colpo che ci viene richiesto dall’Europa.
Il debito pubblico è come un macigno sulle scelte possibili della politica economica italiana e il suo peso è stato significativamente accresciuto dalla crisi mondiale.
Le previsioni sono molto chiare: nel 2009 il livello è stato pari al 115,8 per cento del PIL, salirà al 118,4 nell’anno successivo, per raggiungere il 119,6 nel 2012 (stime RUEF). Il faticoso percorso di riduzione, avviato nel 1994 e proseguito con alterne vicende fino ad oggi, che partiva da 123 punti, appare completamente vanificato. Come accade nel gioco dell’oca siamo tornati al punto di partenza e tutto resta ancora da fare. Unica magra consolazione sta nel fatto che, rispetto al 1994, anche la media dell’area euro è cresciuta, attestandosi nel 2009 sul 78 per cento, rispetto all’originario 60 per cento. Ma il mal comune mezzo gaudio in questo caso non vale, anzi si crea il rischio di un eccesso di offerta sul mercato dei titoli.
Cos’è il debito pubblico? Semplificando, è lo squilibrio tra le entrate e le spese delle diverse amministrazioni pubbliche che, anno dopo anno, si consolida in uno stock che tende a diventare sempre più grande. Se le entrate non riescono a coprire tutte le spese, per la quota residua si ricorre all’indebitamento. Lo stato, la regione e l’ente locale chiedono in prestito al mercato (cioè a famiglie, imprese, banche, fondi pensione …) ciò che manca per fronteggiare il fabbisogno , dato dalla quota di pagamenti (inclusi i titoli in scadenza da rimborsare) in eccesso rispetto agli incassi. Solo lo Stato, che fa la parte del leone, deve piazzare ogni anno ben 500 miliardi di titoli.
Si produce debito pubblico per varie ragioni: perché i fini sopravvanzano sempre i mezzi (strabismo del decisore); perché indebitarsi per realizzare investimenti è, entro certi limiti, auspicabile, poiché questi produrranno maggiori redditi negli anni futuri; perché alcune voci di spesa tendono ad aumentare automaticamente per ragioni strutturali (pensioni, sanità). A queste si aggiungono sprechi ed evasione fiscale, in Italia particolarmente elevati.
Si può evitare il rimborso del debito pubblico ? Nel novecento è successo, come conseguenza delle guerre mondiali. E’ per questo che i tedeschi sono così attenti alla stabilità finanziaria, avendo visto per ben due volte, nel corso del ‘900, azzerare completamente il valore della propria moneta. In tempo di pace quasi nessuno sostiene la possibilità di evitare il rimborso del debito. Per 100 anni nessuno presterebbe più nulla allo Stato insolvente e la vita non sarebbe facile.
Il mercato acquista i titoli di debito emessi dalle amministrazioni pubbliche, anche a lunga scadenza, con relativa facilità perché, oltre al premio, è sicuro che queste, immuni dal fallimento, restituiranno il dovuto. La crisi greca ha incrinato questa certezza. Dopo il fallimento di grandi banche davanti al risparmiatore si è affacciato anche lo spettro del fallimento degli stati sovrani. E’ solo per esorcizzarlo che i ministri di tutta Europa sono accorsi al capezzale della Grecia.
Cosa significa avere un debito pubblico molto più elevato rispetto a quello degli altri paesi? Che ogni anno una maggiore quota della spesa corrente deve essere destinata al pagamento delle spese per interessi, anziché ad interventi pubblici a sostegno dell’economia. Si tratta di cifre considerevoli: nel 2009 in Italia la spesa per interessi è stata pari a 4,7 punti di PIL, 71,2 miliardi di euro. Se il nostro debito fosse la metà di quello esistente (come dovrebbe), avremmo ogni anno una somma dell’ordine di 35 miliardi di euro (ben 10 in più della manovra appena varata) a disposizione per azioni di finanza pubblica.
Serve quindi a poco martirizzare i dipendenti pubblici per risparmiare 7 o 8 miliardi di euro. Bisogna ridurre sprechi ed inefficienze, contrastare l’evasione fiscale, ma soprattutto mettere carburante (e non ne serve neppure moltissimo) nella conoscenza (istruzione e ricerca), l’unico settore che potrà darci quel punto in più di crescita senza il quale la montagna del debito non può essere scalata. La patrimoniale può essere quel carburante.