Venti anni di batoste alle retribuzioni: 14.700 euro, l’ultimo in Europa

Venti anni, il tempo di un paio di governi di centro sinistra, di quattro governi Berlusconi con contorno di governi residui di “Prima Repubblica” e intermezzo di qualche governo “tecnico”. Venti anni, il tempo di grandi battaglie e manifestazioni sindacali e di due-tre decantate ristrutturazioni industriali. In questi venti anni, dal 1990 ad oggi, i salari hanno perso il 13 per cento rispetto al Pil. Vuol dire che la ricchezza complessiva del paese cresceva, di poco o di tanto ma cresceva. Ma il lavoro dipendente veniva pagato meno di quanto cresceva la ricchezza, appunto il 13 per cento in meno.

La maggior ricchezza in venti anni è andata altrove e venti anni filati indicano senza ombra di dubbio che è un sistema, una scelta, un assetto e non un caso o un incidente. Quando si parla, se se ne parla, di “questione salariale” i numeri dicono che in Italia il lavoro è poco pagato, che il salario italiano è compresso e storto. Salario che ha pagato dazio, che è arrivato ultimo nella corsa alla ricchezza rispetto alla rendita, al profitto, alla finanza, al lavoro autonomo in tutto il mondo. Ma nelle 19 economie più sviluppate del pianeta l’handicap pagato dal salario è dell’otto per cento, in Italia del tredici. Quel cinque per cento è una penale tutta italiana che il sistema ha imposto al lavoro.

Percentuali astratte? Andiamo al concreto: il salario medio italiano è di circa 25mila dollari annui, più o meno 14.700 euro. Su una scala di 30 paesi industrializzati significa il 23° posto. Il salario coreano è di quasi 40mila dollari. Troppo lontana e aliena la Corea? Quello inglese è di 38mila dollari, quello svizzero di 36mila, quello giapponese di 34mila, quello norvegese di 33mila. Salario australiano: quasi 32mila. Olandese: quasi 31mila, come quello americano. In Germania è di 29mila dollari, in Francia di 26mila dollari. La Spagna è appena sotto di noi, a quota 24mila. Dietro restano solo i salari portoghesi, turchi e polacchi, rispettivamente 19mila, 14mila e 13mila dollari.

Venti anni in cui il salario italiano è stato sistematicamente punito, a vantaggio della spesa pubblica, anche assistenziale. Spesa difesa dalla destra e dalla sinistra, da tutti i sindacati e da tutti i partiti. Venti anni di punizione che sono in carico a chiunque ha governato. Sulle spalle magre di questo salario oggi va a pesare la disoccupazione: 57 mila disoccupati in più in un mese (dicembre su novembre 2009), 392 mila disoccupati di più in un anno (2009 su 2008). Un paese dove lavorano in pochi (57,1 per cento), dove un quarto abbondante dei giovani è senza lavoro (26,2 per cento). Dove il numero totale e ufficiale dei disoccupati ha superato quota due milioni (2.138mila).

Sono le cifre ufficiali dell’Istat sommate a quelle di una ricerca Eurispes. Dicono che nessuno dice tutta la verità, anzi spesso neanche mezza. Dicono che non basta un aumento salariale o uno sgravio fiscale peraltro non all’ordine del giorno. Dicono che il sistema è “storto”: troppa della ricchezza prodotta va alla spesa e alla rendita e troppo poco al salario. C’è una forza politica o sindacale che abbia la voglia di tagliare la spesa e la rendita per raddrizzare il salario?

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