ROMA – In questo caso di analisi costi-benefici non s’è sentito parlare, ma l’Italia sta per diventare il primo Paese del G7 a sostenere formalmente la Belt and Road Initiative, altrimenti nota come “nuova Via della Seta”: un maxi progetto infrastrutturale fatto di porti, linee ferroviarie, strade e corridoi marittimi con cui il presidente cinese Xi Jinping punta a connettere la Cina ad Europa ed Africa. Un primato che irrita pero, e molto, i nostri alleati europei e, soprattutto, gli Usa che con Pechino sono in guerra commerciale e forse non solo.
“Il negoziato non è ancora completato, ma è possibile sia concluso in tempo per la visita – ha detto il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci, che dal 2008 è stato docente di economia e finanza in Cina, riferendosi alla visita nel nostro Paese di Xi Jinping prevista a fine mese – Vogliamo assicurarci che i prodotti del made in Italy possano avere più successo in termini di volumi di export verso la Cina, che è il mercato a crescita più veloce al mondo”.
“L’Italia è una grande economia globale e un’importante destinazione di investimenti. Non è necessario che il governo italiano legittimi il progetto di vanità delle infrastrutture della Cina”, è stato il commento arrivato su Twitter da Garrett Marquis, consigliere del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Perplessità a cui sono aggiunte quelle europee, da cui si lamenta una mancanza di unità che sarebbe invece necessaria per affrontare questioni come quella dei rapporti commerciali con la Cina, gigante mondiale. Ma le perplessità più nette sono quelle che arrivano da oltreoceano. Se l’accordo con la Cina venisse siglato, questo potrebbe significare una svolta in negativo nei rapporti Roma-Washington fino a mettere in discussione il nostro ruolo nella Nato.
Il perché di questa irritazione a stelle e strisce è presto spiegato, ed è molto più concreto della formula usata giorni fa, sempre da Marquis, che invitava “tutti gli alleati e i partner, inclusa l’Italia, a fare pressione sulla Cina affinché adegui i suoi sforzi di investimento globali agli standard accettati a livello internazionale”. La questione vera non sono gli standard ma la guerra commerciale, fatta di dazi, scatenata dal presidente Donald Trump contro la Cina. Una guerra che ha visto finire in carcere su mandato Usa una delle figure di spicco di Huawei, azienda leader delle telecomunicazioni di Pechino, e l’esclusione della suddette azienda dalle forniture per il governo americano perché a rischio spie.
E va sottolineato, allora, che nei giorni scorsi iniziative targate Huawei hanno visto la partecipazione di esponenti del governo, sponda M5S. Sulla nuova via della Seta rischia infatti di riapparire la divisione di vedute tra i due partner di governo, solo a ruoli invertiti. In questo caso è la Lega a frenare, esempio ne è il tweet sul ‘memorandum of understanding’ con la Cina del sottosegretario leghista agli Affari esteri, Guglielmo Picchi: “Condivido le preoccupazioni, non per compiacere gli alleati, ma perché è necessario un ulteriore approfondimento”. Mentre a premere sull’accordo è il Movimento5Stelle che vede, in questo, grandi prospettive di sviluppo. In attesa della nascita del movimento NoBri, ovviamente. E in attesa che una nuova analisi provi a conteggiare i costi di una rapporto rovinato con Washington.