ROMA – La scelta di far rimanere in Italia i due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre è stata meditata per mesi, e già a Natale il ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata e il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola avevano pensato di non rispettare gli accordi con l’India. Vincenzo Nigro su Repubblica racconta cosa è successo dietro le quinte in una vicenda che potrebbe portare a una crisi diplomatica fra Italia e India. Cosa è cambiato da fine dicembre? Lo spiega a Nigro una fonte anonima:
«Ma allora non avevamo ancora capito fino in fondo la lentezza, il disinteresse con cui l’India affrontava una questione di dignità totale per il governo della Repubblica italiana», dice un alto funzionario che ha seguito nei mesi tutti i passaggi dello scontro sul caso dei due pescatori del Kerala uccisi nel febbraio del 2012. Per questo la settimana scorsa sono stati Giulio Terzi e Giampaolo Di Paola i due ministri che hanno chiesto e spinto più degli altri perché l’Italia non rispedisse in India i due marò. Superando quindi le obiezioni del premier Mario Monti, preoccupato delle conseguenze per i rapporti politici ed economici con l’India. Alla fine della scorsa settimana, in una riunione col premier e col ministro della Giustizia Paola Severino, i responsabili di Esteri e Difesa hanno tirato le somme: tutti insieme, con l’avallo di Napolitano, hanno deciso di violare i patti con Delhi. «In verità non è proprio così», sostiene in maniera ardita una fonte della Farnesina, «sono le condizioni che sono mutate, e noi ci siamo tenuti le mani libere per modificare la nostra adesione allo scenario creato dall’Unione indiana». Come dire sono i fatti che sono cambiati, anche se — viste le furibonde proteste indiane delle ultime ore — il governo di Delhi non deve avere proprio la stessa lettura che propongono Terzi e Di Paola.
Tanti sono i fattori che hanno portato l’Italia alla rottura del patto con l’India, spiega Nigro:
Innanzitutto la sentenza del 18 gennaio della Corte suprema di Delhi. In quella sentenza i supremi magistrati dell’Unione stabilivano l’incompetenza dello stato del Kerala, ma sostenevano anche che i militari italiani non godevano delle “garanzie funzionali” che avrebbero garantito loro immunità. Quindi la giurisdizione rimaneva indiana, anche se Delhi doveva organizzare un tribunale speciale per affrontare il caso. La sentenza del 18 gennaio era stata una doccia fredda per Esteri e Difesa: in base a non si capisce quali informazioni confidenziali, sussurrate ai dirigenti italiani da alcuni mediatori e trafficanti indiani, sembrava che la Corte suprema avrebbe dovuto decidere la rinuncia della giurisdizione indiana sul caso. La decisione contraria a questo punto lasciava pensare a un processo in India dai tempi prevedibilmente lunghi, visto che non esisteva neppure il “tribunale speciale” difronte al quale far comparire Salvatore Girone e Massimiliano La Torre.
A quel punto l’Italia prova a giocare l’ultima carta, che però era già un modo per prepara il “colpo gobbo” annunciato poi l’11 marzo: con una nota verbale il 6 marzo la Farnesina propone al governo indiano una soluzione politica e diplomatica. Un ricorso all’arbitrato internazionale previsto dalla convenzione Onu sul diritto marittimo (Unclos). Gli indiani non rispondono in pochi giorni, offrendo così agli italiani il pretesto per dire nella nota verbale consegnata l’11 marzo che ormai la contesa è fra i due Stati, e che per questo l’Italia è costituzionalmente impedita dal restituire i due marò all’India.
La scelta dello strappo dell’11 marzo avviene su impulso del ministro Di Paola e con il placet di Pdl e di Pd:
Uno dei dirigenti coinvolti nel processo decisionale elenca alcuni punti che sono stati valutati dal governo: «Innanzitutto il pressing fortissimo di Di Paola, che da ammiraglio, da ex capo della Difesa, sentiva come un dovere assoluto riportare i sottufficiali in Italia. Per questo dovevamo decidere prima del 22 marzo, ovvero prima della data di rientro. Poi abbiamo voluto decidere prima del 15 marzo, la data di insediamento delle nuove Camere, per evitare ogni ingorgo istituzionale. Poi ancora volevamo evitare di passare una patata bollente al prossimo governo, un governo che avrebbe impiegato mesi e mesi solo per studiare il caso». La decisione fra l’altro in qualche modo è stata condivisa non solo dai partiti di centrodestra, ma accettata anche dalla sinistra, dal Pd. Di Paola aveva avvertito il Pdl, seguendo il filo che non ha mai interrotto con Gianni Letta, sottosegretario con la delega alle questioni della sicurezza nei governi Berlusconi. Lo stesso Terzi, vicino al Pdl, ha premuto per raggiungere un risultato gradito a quella parte politica. Ma nel Pd un deputato come Sandro Gozi, presidente dell’associazione parlamentare Italia-India (e molto vicino a Romano Prodi) spiega che «per l’Italia non era più tollerabile andare avanti senza che le istituzioni indiane comprendessero che la cosa non poteva rimanere ostaggio di un gioco dilatorio, un gioco ormai scorretto».
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