ROMA – Gibuti, uno degli Stati più piccoli dell’Africa, è diventato il “partner strategico” della Cina. I cinesi hanno costruito una base militare, un porto e attualmente stanno realizzando una zona di libero scambio, rendendola una porta di Pechino verso il continente.
Gibuti è uno degli Stati più piccoli dell’Africa ma da diversi anni le persone sembra che stiano pensando in grande. Molti sognano di creare, con l’aiuto cinese, qualcosa di simile a Singapore e agli Stati del Golfo, come scrive Spiegel online.
Potrebbe non essere facile realizzare qualcosa in questa terra arida, ma c’è molta ambizione, la volontà di rischiare e progredire. I gibutiani sono alla ricerca di una vita migliore e di un ruolo più importante per se stessi, in una società globale in procinto di riordinare se stessa.
Gibuti, rispetto ad altri Paesi africani, è più aperto e disposto a sperimentare e anche se l’Europa e gli Stati Uniti continuano ad essere importanti, quando pensano al loro futuro guardano alla Cina.
Il Paese ha toccato con mano quanto i cinesi sappiano concretizzare i progetti: sulla costa è stato realizzato un nuovo porto e le gigantesche gru di Doraleh sono diventate punti di riferimento di Gibuti. Nel frattempo, la zona di libero scambio che Nicholas Li sta costruendo nella terra rocciosa è destinata a creare posti di lavoro e benessere.
La zona di libero scambio è importante per Gibuti, perché il suo scopo è creare posti di lavoro per i locali. “In un posto in cui lavorano 50 stranieri, 50 dei nostri abitanti dovrebbero essere in grado di trovare lavoro”, dice Mohamed Abdullahi Wais, Segretario generale della presidenza e influente personalità del governo. “Abbiamo creato la zona in modo che venga modellata sul Gebel Ali a Dubai”, afferma.
Gibuti possiede una merce importante. Una delle più trafficate rotte di navigazione del mondo si trova proprio al largo della costa del Paese. Decine di petroliere e navi portacontainer partono ogni giorno verso il Mar Rosso, dirette verso il Canale di Suez e i porti europei.
La posizione strategica è uno dei motivi per cui i cinesi sono presenti a Gibuti con i loro project manager, banchieri e ingegneri e, più recentemente, con l’esercito. E sebbene possano essere solo gli ultimi di una lunga serie di potenze straniere di stanza a Gibuti, pensano in termini più ampi degli altri. Il piccolo Paese funge da porta d’accesso per l’Africa.
Sono rimasti quelli già presenti prima che arrivassero i cinesi, soprattutto con gli eserciti. I Paesi di tre continenti hanno basi a sud della capitale, compresi gli Stati Uniti, il Giappone, l’Italia e, naturalmente, gli ex governanti coloniali di Gibuti, i francesi. Anche le forze spagnole e tedesche sono di stanza nella base militare francese Aérienne 188. A Gibuti, il francese è ancora la lingua più parlata.
Nello Stato vivono un milione di persone, in un Paese un po’ più grande della Liguria. Provengono da culture diverse, parlano l’arabo o le lingue dei paesi vicini della Somalia e dell’Etiopia. Due grandi gruppi della popolazione sono stati a lungo coinvolti in un conflitto civile, gli Afar dal nord e l’Issa dal sud, ma da quando nel 1994 si è concluso, la situazione è relativamente pacifica.
Il presidente Ismail Omar Guelleh ha dimostrato, con successo, di saper mantenere la pace nel Paese. Guelleh trova la nozione di libertà politica troppo rischiosa e ha invece sottolineato rigore e stabilità. In una regione piena di conflitti, la stabilità è l’altra risorsa che Gibuti ha da offrire. La terza, è una certa dose di apertura al mondo. L’Islam può essere la religione ufficiale dello stato, ma a Gibuti la fede è generalmente una questione privata. Le funzioni si svolgono regolarmente nelle chiese cristiane, e se una donna vuole camminare per le strade in jeans e senza il velo, nessuno trova da ridire.
I cinesi, da quando hanno iniziato a garantire l’accesso alle risorse minerarie del continente e a finanziare porti, ferrovie e dighe con miliardi di prestiti, hanno subito molte critiche. In Africa, sono spesso visti come neocolonialisti, come spietati fanatici del business che pensano solo a se stessi.
In alternativa, si potrebbe invece considerare questi investimenti cinesi come una forma d’aiuto allo sviluppo, particolarmente efficiente? Il conflitto sulla questione, condotto tra la Cina e l’Occidente, ma anche all’interno dell’Africa stessa, è molto acceso. I critici, sono irritati per le condizioni in cui spesso vengono offerti i prestiti cinesi, inizialmente con un interesse minimo o nullo, seguito da un alto interesse per molti anni, uno schema finanziario che, argomentano, crea dipendenza.
Ancora più importanti, ovviamente, sono i progetti di costruzione. Oltre alla zona di libero scambio e al porto di Doraleh, sono in lavorazione anche anche tre impianti transfrontalieri supportati parecchio denaro. Porteranno Gibuti e l’Etiopia, che svolgono il commercio internazionale quasi interamente attraverso i porti nel vicino mare, li avvicineranno ulteriormente. I cinesi stanno gestendo lo sviluppo delle infrastruttura.
La linea ferroviaria elettrifica che collega le due capitali è stata già terminata, anche se non c’è abbastanza elettricità per il funzionamento regolare di tutta la linea. L’oleodotto dell’Etiopia è già funzionante, con il completamento finale ormai prossimo e un gasdotto è in fase di progettazione. Dal punto di vista cinese, tutto ciò ha lo scopo di inserirsi in un quadro più ampio: la nuova Via della seta.
Pechino ha investito nella costruzione di infrastrutture portuali, strade, linee ferroviarie e centri commerciali in Asia, Africa ed Europa con il nome inglese “One Belt, One Road”. L’obiettivo è creare una zona economica strettamente intrecciata sotto il controllo cinese. One Belt, One Road è, soprattutto, un progetto geopolitico.
I soldati cinesi sono molto presenti nel Paese, nonostante siano rintanati dietro i muri di cemento. Ad ovest del porto, la scorsa estate l’esercito ha aperto una base navale. E’ stata oggetto di molte voci. È la prima struttura militare cinese ad essere situata al di fuori dell’Asia, e solo questo la rende interessante. Ufficialmente, è una base di supporto logistico per la flotta cinese.
Ai militari occidentali piace chiamare l’imponente struttura “il palazzo di Jabba the Hutt”, un riferimento a “Star Wars”. L’edificio ha tre piani sotterranei e può ospitare fino a 10.000 soldati.
Con la difesa militare come quelle di Gibuti, la Cina vuole mandare un doppio messaggio: uno di forza e uno di pace. L’esercito sta mostrando di cosa è capace. Allo stesso tempo, i politici cinesi sottolineano in ogni occasione che è solo una questione di difesa.
Nonostante gli sforzi per placare la situazione, gli americani sono sospettosi. Si preoccupano che la Cina presto sarà all’altezza non solo a livello economico, ma anche militare. Una delle qualità degne di nota di Gibuti è che la vecchia e la nuova superpotenza sono più vicine tra loro che in qualsiasi altra parte del pianeta.
Camp Lemonnier, l’unica base militare permanente degli Stati Uniti sul suolo africano, si trova a pochi chilometri dalla fortezza cinese. Da qui, forze speciali si dirigono verso missioni segrete e i droni decollano per inseguire i terroristi in Somalia o nello Yemen.
I circa 4.000 soldati americani vivono nel campo in modi che ricordano la vita su una portaerei, osservando la terra circostante come un oceano pieno di pericoli. Possono lasciare la base soltanto con un permesso speciale. E, anche in quel caso, la capitale è per lo più classificata come “area vietata”.
Originariamente una base francese, i militari statunitensi hanno rilevato Camp Lemonnier nel 2002, in seguito agli attacchi dell’11 settembre, dopo che Parigi aveva stabilito che la struttura non era più necessari. L’attuale base francese a nord dell’aeroporto è ancora estesa. È un posto dove si possono vedere soldati in pantaloncini che vanno in bicicletta per rimanere in forma e bambini che si recano a scuola. I motori dei caccia Mirage che controllano lo spazio aereo sopra la capitale.possono essere ascoltati regolarmente. Thierry Duquenoÿ, il capo delle forze armate francesi nel Paese, spiega perché Gibuti sia così importante. “Per l’Asia, l’Africa e l’Europa, questa è una regione chiave”, afferma. “Il Golfo di Aden e il Mar Rosso non separano la sfera araba e quella africana ma li collegano come una cerniera”.
Anche se le dimensioni del personale sono diminuite negli ultimi anni, spiega, Parigi è ancora convinta dell’importanza del sito. Il generale Duquenoÿ sottolinea a questo punto con un dettaglio non da poco: “Sono l’unico comandante francese al di fuori del Paese con tre stelle”, dice. Spiega che il suo compito più importante è combattere il terrorismo, sebbene non possa parlare ulteriormente dell’argomento.
Non sono solo le tre diverse nazioni a unirsi nel piccolo Gibuti, il Paese lega anche tre epoche diverse. Includono il periodo dell’egemonia europea, incarnato dai francesi, i suoi ex sovrani coloniali; il potente ordine mondiale americano, sostenuto dai militari; infine, il futuro iniziato con l’era dei cinesi.
Anche i tedeschi sono presenti a Gibuti, almeno nella periferia. Insieme a un contingente delle forze armate spagnole, sono di stanza alla Base Aérienne 188. Sono presenti come parte della missione Atalanta dell’Unione Europea per proteggere il traffico marittimo nella regione dai pirati. Utilizzando un velivolo di sorveglianza marittima Orion P-3C, i soldati osservano se lungo la costa somala stia accadendo qualcosa di sospetto e ogni movimento notato, viene riportato alla sede di Atalanta.