Libia. Berlusconi irritato con Sarkozy. Caos sulla leadership della missione

ROMA – La terza notte di raid aerei sulla Libia è passata ma, come segnala il New York Times, “c’è ancora confusione su quale paese o organizzazione stia effettivamente guidando le operazioni”. Vista oltre Atlantico, la crisi libica sembra ridimensionata a conflitto regionale, parte di un sommovimento più generale che dalle coste africane del Mediterraneo si è propagato in tutta l’area del Golfo Persico. Obama, a conferma di un crescente disimpegno dalla prima linea del fronte anti-Gheddafi, lascia fare alle potenze europee. Che, come ampiamente previsto, marciano, si dovrebbe dire “volano” divise, nonostante l’oggettivo successo della risoluzione 1973 approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu con l’astensione (di fatto un via libera) di Russia e Cina che autorizza interventi militari mirati alla salvaguardia della popolazione civile e l’appoggio agli insorti.

La Germania è stata la prima a sfilarsi dalla coalizione dei volenterosi. La Norvegia ci ha subito ripensato. L’Italia, di fatto la nazione più esposta geograficamente, quella con più interessi commerciali in loco, aveva appoggiato la missione sia pur con riluttanza. Ma ora l’accelerazione impressa da Sarkozy è fonte di irritazione e ansia. Non ci sono solo il petrolio o un sia pur vago spirito umanitario in ballo: l’esodo biblico di migranti nordafricani ha letteralmente seppellito l’isola di Lampedusa. L’apertura odierna del quotidiano “Libero” è emblematica: “A loro il petrolio, a noi i clandestini”. Al popolo della destra questa guerra non piace. E a Berlusconi, in questo senso, non servono sondaggi per fiutare il pericolo innescato dall’avventura bellica. Per prima cosa ha individuato il “nemico” numero uno, quel Sarkozy che gioca a fare Napoleone: “sta incendiando il Mediterraneo per garantirsi un secondo mandato all’Eliseo”. Il decisionismo francese sta rubando la scena agli altri alleati relegandoli al ruolo di comprimari. Le Monde titolava ieri “La Francia e i suoi alleati attaccano la Libia”. Il ministro degli esteri Frattini  ha chiesto con forza che il comando delle operazioni sia affidato alla Nato ribadendo che l’uso delle basi italiane è subordinato a questo cambio di leadership. In pratica, per il governo italiano non è tollerabile che l’aviazione francese disponga delle nostre strutture senza nemmeno avvertirci delle sue intenzioni. Berlusconi si riserva di introdurre la questione al prossimo Consiglio Europeo programmato per giovedì.

Non siamo alla testata di Zidane a Materazzi, ma Francia e Italia stanno giocando in queste ore una partita diplomatica senza esclusioni di colpi. Del resto l’approccio alla guerra non potrebbe essere più diverso. Sarkozy e il neo ministro degli Esteri Alain Juppé hanno rispolverato le radici gaulliste, sognando di restituire alla nazione il prestigio e la centralità strategica di un tempo. In Italia appoggiamo una guerra che vorremmo senza sparatorie, autorizziamo il decollo di caccia dalle nostre basi, ma ci addoloriamo per la sorte dell’ex amico Gheddafi.

Ai grandi obiettivi, destituire un dittatore sanguinario, favorire l’emergere di una democrazia  in Libia, corrispondono risultati minimi, con la prospettiva, tutt’altro che remota, di un fallimento colossale. L’unica conseguenza certa, dolorosamente sperimentabile sulle coste siciliane, è un fiume inarrestabile di profughi, clandestini, disperati ai quali non possiamo offrire null’altro che un isolotto per tirare il fiato e pregare Iddio di avercela fatta. Impossibile contenere un esodo di tali dimensioni, impossibile farlo accettare alla popolazione di Lampedusa, per esempio. Anche per una guerra, sul cui sfondo si stagliano i pozzi, le trivelle e gli oleodotti, è bene effettuare un “trade off” accurato, come in ogni affare che si rispetti. Ma il calcolo costi/benefici per per ora produce un saldo negativo. Soprattutto per noi.

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