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Libia, Egitto e co: “Usa, attenti alle rivoluzioni degli altri”

di Maria Elena Perrero |3 Marzo 2011 13:49

Ben Ali, Saleh, Gheddafi e Mubarak

ROMA – “Gli americani amano la rivoluzione”: inizia così un lungo articolo di Niall Ferguson pubblicato oggi dal Sole 24 Ore. Analizzando la risposta statunitense alle rivolte del Nord Africa, e in particolare della Libia, il professore di Harvard spiega nella nascita degli stessi Usa con una rivoluzione la simpatia e l’empatia di Washington per i rivoluzionari di altre terre.

Già Benjamin Franklin e Thomas Jefferson guardarono con gioia alla rivoluzione francese. Nei “Dieci giorni che sconvolsero il mondo” il giornalista John Reed riservò lo stesso entusiasmo alla rivoluzione russa del 1917 e al leader Lenin. Medesima reazione ebbe Edgard Snow di fronte alla rivoluzione comunista cinese e di Mao.

Il problema degli americani, sottolinea Ferguson, è che il loro plauso alle rivoluzioni si tramuta puntualmente in silenzio non appena quelle stesse rivolte danno segno si oltrepassare i confini locali.

Oggi, di fronte alle rivoluzioni nel mondo arabo, gli americani, scrive Ferguson, dovrebbero ricordarsi tre cose: per le rivoluzioni occorrono anni; le rivolte hanno inizio con una sfida all’ordine politico costituito, ma più violenza serve più è facile che l’iniziativa passi nelle mani di uomini violenti. Infine, “dal momento che i paesi confinanti si sentono esposti al pericolo della rivoluzione, alle violenze interne fanno spesso seguito quelle esterne, o perché la rivoluzione è veramente messa a repentaglio dagli stranieri, o perché torna comodo ai rivoluzionari addossare ogni responsabilità di problemi interni a una minaccia esterna”.

“Due settimane fa, ammette lo stesso studioso, ho criticato l’amministrazione Obama per non essere riuscita a prevedere questa crisi per tempo, e anche per non aver avuto alcun tipo di grandiosa strategia coerente con la quale affrontarla, dando vita così a un periodo di sfortunata confusione nella politica estera americana. Molti critici si sono chiesti come avrebbe potuto essere configurata una strategia coerente così auspicata, e la risposta è la seguente”.

“Per molti anni, continua la ricostruzione di Ferguson, le amministrazioni americane hanno cercato di accontentare tutti in Medio Oriente, predicando i meriti della democratizzazione senza al contempo fare quasi nulla per esercitare pressioni sui despoti della regione per varare riforme, a patto che il loro pessimo comportamento rimanesse entro certi limiti tollerabili”.

“L’amministrazione Bush ha messo fine a queste acrobazie verbali, e ha iniziato a intervenire, oltre che a lodare la politica della democratizzazione, utilizzando la forza per installare dei governi eletti sia in Afghanistan sia in Iraq”.

Barack Obama è stato eletto proprio per allontanare il più possibile il rischio di un nuova gestione simil-Bush. “Ma al posto della dottrina Bush c’è stato il nulla. L’ossequioso discorso di Obama del 2009 al Cairo ha teso una fiacca mano di amicizia al mondo musulmano. Ma a chi è stata tesa? Ai despoti? O alle popolazioni a loro asservite? A quanto pare, anche Obama sperava di accontentare tutti, dato che è arrivato a stringere la mano all’odioso Muammar Gheddafi”.

Per Ferguson la strategia giusta starebbe nel cercare di ripetere i successi del periodo precedente al 989, “quando in Europa centrale e orientale mettemmo in pratica ciò che avevamo predicato, dando un sostegno concreto agli individui e ai movimenti che ambivano a sostituire i regimi comunisti marionetta con altrettante democrazie”.

Gli sforzi fatti verso il mondo arabo sono stati sempre minori, e ora lasciano un vuoto sui possibili successori dei deposti leader. Con la conseguenza probabile che il potere finisca nelle mani degli elementi meglio organizzati, più radicali, “più spietati della rivoluzione, che in questo caso specifico significa islamisti come i Fratelli musulmani”.

Inoltre Washington, sottolinea Ferguson, non ha mai sfruttato le divisioni interne al movimento islamista. E in mancanza di una strategia americana “la probabilità che si realizzi lo scenario peggiore prende piede sempre più, di giorno in giorno”.

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