ROMA – L’importanza strategica dell’alleanza tra Italia e Stati Uniti e la volontà di lavorare insieme in vista della prossima presidenza italiana del G7 nel 2017. Sono due concetti che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha tenuto a ribadire nella sua telefonata di congratulazioni fatta oggi, giovedì 10 novembre, al presidente americano eletto Donald Trump.
Se escludiamo il colloquio con Renzi, l’orizzonte europeo di Donald Trump non tocca l’Europa continentale, almeno nei suoi primi due giorni da presidente eletto degli Stati Uniti. Telefonata e invito alla premier britannica Theresa May, telefonata al premier irlandese, Enda Kenny. Silenzio invece, per ora, con i leader degli altri grandi Paesi del Vecchio Continente: in primis Angela Merkel e François Hollande, che mercoledì da Berlino e Parigi gli avevano recapitato solo congratulazioni di rito, venate di gelo e di raccomandazioni pedagogiche su democrazia e tolleranza; e che per un po’ restano in lista d’attesa.
I contatti arriveranno presto anche con loro, ci si può scommettere, poiché la realpolitik ha le sue leggi. Ma il segnale appare chiaro. E una fase di decantazione, se non altro, s’impone prima che il ghiaccio possa essere rotto. Intanto, il presidente-tycoon trova il modo per sentire i leader di Stati mediorientali e asiatici che restano strategici nella visione d’una ‘nuova America’ (Israele, Egitto, Turchia, India, Giappone, Corea del Sud), oltre che della lontana Australia o dei vicini Canada e Messico: da recuperare, a dispetto dell’ombra del muro di confine a sud degli Stati Uniti.
Mentre l’attesa vera rimane quella del primo contatto ufficiale con il più importante e il più evocato degli interlocutori del momento, Vladimir Putin, che attende silenzioso in riva alla Moscova nella sua veste di convitato di pietra mediatico della corsa 2016 alla Casa Bianca.
Theresa May, da parte sua, non perde tempo a scavalcare la coda. E apre subito un canale, consapevole che sulla strada dell’uscita dall’Ue (divorzio che la primo ministro ribadisce a ogni pie’ sospinto di voler attuare senza rinvii dopo il referendum sulla Brexit del 23 giugno) rappresenta una sponda vitale come non mai. La loro prima volta è stata giovedì una conversazione cordiale nel resoconto che ne ha offerto Downing Street: sintonia sulla necessità di confermare la “special relationship” transatlantica, impegno a ribadire le ragioni di una “stretta alleanza”, volontà di dialogo sui dossier di politica internazionale e di sicurezza, promessa di consolidare i rapporti commerciali e gli investimenti. Non solo, Trump ha invitato May a fargli visita “quanto prima” a Washington: “Sarebbe un onore”, ha fatto sapere in uno slancio di galanteria.
E dire che appena pochi mesi fa, quando era ‘solo’ il front-runner dei candidati repubblicani al dopo Obama, era stato al centro di polemiche roventi sull’isola a causa di controverse sparate da comizio sulla presunta ‘invasione islamica’ di alcune aree di Londra. Al punto che si era arrivati a discutere nel Parlamento di Westminster una petizione popolare sulla possibilità di dichiarare il magnate newyorchese persona non grata nel regno. Non se ne era fatto nulla, ovviamente. Ma erano volate parole pesanti: dal sindaco laburista della capitale britannica, Sadiq Khan, figlio d’immigrati musulmani, come pure da parte di esponenti Tory di primo piano, David Cameron incluso.
Acqua passata, tuttavia, agli occhi di May, che adesso guarda piuttosto a Trump come a un asso da giocare nell’insidioso cammino della transizione verso l’addio a Bruxelles. Forse addirittura come a un uomo della Provvidenza, in grado di rimescolare le carte dopo le tante dichiarazioni brexitiste di questi mesi.