La nazionale della Palestina debutta a calcio e perde con la Thailandia

Pubblicato il 10 Marzo 2011 - 15:27 OLTRE 6 MESI FA

AL RAM (CISGIORDANIA) – La nazione non c’è ancora, la nazionale sì e se non è la stessa cosa, è pur sempre un presagio. Devono averlo pensato in molti, ieri sera, fra le migliaia di spettatori che hanno gremito lo stadio ‘Faisal Husseini’ di Al Ram, in Cisgiordania, per assistere a un evento a suo modo storico: la prima partita ufficiale disputata in campo amico da una rappresentativa palestinese di calcio (o di qualsiasi altro sport a squadre) dalla nascita dello Stato d’Israele, nel 1948. E in tutti i 63 anni di conflitto quasi ininterrotto che ne sono seguiti.

Il risultato, per quel che vale, non ha coronato la festa, poiché la Palestina, dopo aver prevalso sulla Thailandia per uno a zero nei tempi regolamentari, ribaltando la sconfitta patita all’andata a Bangkok, ha ceduto infine ai rigori per 7-6 contro i modesti avversari. Ma al di là dello score, e del mancato superamento del primo turno delle qualificazioni olimpiche per i Giochi di Londra 2012, stavolta ha contato davvero il semplice fatto di esserci: a dispetto di un cielo insolitamente plumbeo e con l’ambizione di mostrarsi padroni almeno d’un pezzo di terra degno di ospitare un match valido per un torneo vero.

L’ultimo precedente si perde nella notte dei tempi. Risale al 1934, anno in cui l’Italia di Vittorio Pozzo vinse il suo primo titolo mondiale, quando una Palestina ancora entità coloniale potè scendere in campo con l’Egitto in casa: a Jaffa, all’epoca centro portuale interamente arabo, oggi cittadina saldamente inglobata da Tel Aviv entro i confini dello Stato sionista.

Più tardi anche per il calcio palestinese sarebbe cominciata la diaspora. Senza autonomia e con la necessita’ di mendicare asilo in campo neutro (dall’Egitto, alla Giordania, alla penisola arabica). Un esilio durato fin oltre l’ammissione formale dei palestinesi alle Olimpiadi – a partire dal 1996 – e interrotto soltanto ieri. Grazie alla mediazione del Cio e del suo ‘ministro degli Esteri’, Mario Pescante, capace in questi mesi non solo di rilanciare il dialogo fra i comitati olimpici di Israele e Palestina, ma anche di ottenere dalle autorità politiche dallo Stato ebraico un’apertura di credito sulla libertà di movimento degli atleti palestinesi.

Il risultato è stato l’appuntamento di Al Ram, fra Gerusalemme e Ramallah, dove un speciale salvacondotto firmato dal generale Eitan Dangot, comandante del dispositivo militare israeliano nei Territori, ha consentito anche la convocazione di sei giocatori della Striscia di Gaza, l’enclave superblindata in mano agli integralisti di Hamas: unitisi sia pure un extremis al resto del gruppo, insieme con il Ct tunisino Muhtar Al Talil.

Ad applaudirli ieri- con poche bandiere, ma molto orgoglio – si sono ritrovati in tanti. Dal capo del governo dell’Autorità  palestinese (Anp), Salam Fayyad, alla gente comune: giovani, famiglie e – a sorpresa – non poche ragazze, solo in parte con il capo velato. Come Haneen, studentessa, che racconta all’Ansa di essersi accaparrata i biglietti tramite la scuola per poter sostenere, con un gruppo di compagne, quelli che chiama i suoi ”campioni in divisa biancoazzurra”.

”Comunque sia finita – le fa eco Suha – è stata una partita storica, un passo verso una Palestina internazionalmente riconosciuta”. Un passo salutato dalle immancabili gigantografie del presidente dell’Anp, Abu Mazen, e del padre della patria, Yasser Arafat, a sovrastare lo stadio. Ma soprattutto dal sorriso in carne ed ossa, per quanto adombrato dalla sconfitta, di Jibril Rajoub: dirigente di Fatah ed ex capo dei servizi di sicurezza palestinesi (ma anche ex ‘ospite’, per 17 anni, delle galere israeliane), che oggi riveste il doppio incarico di presidente del comitato olimpico e della federazione calcio di Palestina.

L’uomo che ha fatto da interfaccia a Pescante, ha firmato a gennaio a Losanna un inedito accordo di collaborazione con l’omologo israeliano e ha saputo trovare un linguaggio comune sul terreno dello sport – inteso da entrambi come simbolo e veicolo di pace – anche col presidente d’Israele, Shimon Peres.