Pirateria: l’improbabile invenzione della Marina Somala. La lotta di cinque barchette contro un esercito di pirati

La lotta alla pirateria che infesta ormai da anni il Golfo di Aden ha un protagonista, l’ammiraglio Farah Ahmed, il capo della marina somala. Pochi giorni fa, l’alto ufficiale militare è uscito in mare per pattugliare le coste. Con lui si è mossa l’intera flotta, al gran completo; tutte e cinque le barche traballanti. La « gita » si è conclusa poco dopo. Si rischiava, infatti, di imbattersi in bel altrimenti armati nemici.

C’è da pensare che sia stata senz’altro una fortuna che la marina somala non abbia incontrato i suoi nemici. Cosa avrebbe potuto, infatti, questa banda di soldati malpagati armati con rozzi Ak-47, contro schiere di pirati equipaggiati di armi automatiche e di lanciagranate? Ecco spiegato perché, fino ad oggi, la marina somale ha evitato accuratamente gli scontri contro chi, a queste latitudini, da anni sequestra le navi, rapisce le truppe, ha fatto della pirateria un mestiere di lucro.

Eppure, nonostante la disparità dei mezzi e il futuro non proprio roseo della Somalia, l’ammiraglio Ahmed crede nella propria missione. « Spero che un giorno saremo capaci di controllare ogni cosa nelle nostre acque territoriali » – dice mentre le onde dell’Oceano Indiano si scontrano sul fianco della sua barchetta.

Ahmed è una cosa rara in Somalia, un veterano. In questo paese da sempre martoriato da guerre e dittature sono in pochi ad aver avuto il semplice privilegio di aver visto un vero governo. La Somalia, all’indomani della dittatura di ferro di Siad Barre, è scivolata in un’anarchia politica da cui nulla, fino ad oggi, è riuscita a farla uscire.

La marina somala è un’iniziativa recente; è stata lanciata dal governo solo l’anno scorso. Anche se l’ammiraglio Ahmed tenta con orgoglio di dimostrare che il progetto non è solo un futile esercizio. quello che è certo è che le cose non possono essere mai facili quando il principale finanziatore è il governo somalo. Qui, il potere politico è confinato in un fazzoletto di Mogadiscio, l’unico territorio controllato. Nella lista delle priorità, la sopravvivenza viene dunque molto prima della pirateria.

I donatori stranieri non mancherebbero, ma si sono concentrati sull’addestramento delle forze di sicurezza di terra – polizia e esercito – impiegate dal governo per difendersi e rispondere ai ribelli di Al Quaeda. Le società private e la politica internazionale hanno deciso di non aspettare tempi più floridi per la Somalia, e reagire autonomamente. Le grandi compagnie, i cui cargo devono passare per il Golfo di Aden, hanno assoldato vigilantes privati, armati fino ai denti con sofisticatissime tecnologie militari. L’Unione Europea ha, d’altro canto suo, messo in piedi una forza antipirateria, conosciuta sotto il nome di Operazione Atalanta. Suo scopo principale è scortare le navi che portano cibo alla Somalia per conto del Food Programm delle Nazioni Unite. Il portavoce della forza marina dell’Unione Europea, comandante John Harbour, rivendica i meriti del lavoro svolto. Quando l’operazione antipirateria è cominciata nel 2010 il tasso di sequestri riusciti era uno su tre. Oggi, è uno su 10.

Eppure, nonostante questo miglioramento (dovuto, anche, in parte al maggiore controllo sulle coste esercitato dall’Unione delle Corti Islamiche) la situazione è sempre grave. Per toccare con mano la forza economica dei pirati basta guardare i piccoli villaggi di pescatori da cui tutto è partito qualche anno fa. Negli anni 90 erano paesi in rovina, oggi in alcuni di questi sorgono hotel lussuosi e case faraoniche. Di fronte all’unico boom economico della Somalia, il piccolo esercito dell’ammiraglio Ahmed può ben poca cosa.

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