Tunisia. Stampa: "La moglie di Ben Ali ha tentato il suicidio"

TUNISI – Il 'regno' della famiglia Ben Ali in Tunisia si e' liquefatto, lasciando agli ex regnanti un destino incerto e per certi aspetti tragico.

Tanto che oggi un settimanale tunisino, il francofono Tunis Ebdo, ha diffuso la notizia che Leila, la moglie dell'ex presidente, avrebbe tentato il suicidio, e ora sarebbe ricoverata nell'ospedale di Abha, in Arabia Saudita, dove i coniugi si sono rifugiati dopo aver lasciato il Paese il 14 gennaio scorso.

Un altro quotidiano, il saudita Al Watan, scrive che il direttore del servizio d'urgenza dell'ospedale ha confermato il ricovero della ex first lady, definendo "stazionarie" le condizioni della donna.

Leila non e' molto amata in Tunisia: se Maria Antonietta proponeva, quale dieta alternativa per il suo popolo, delle brioche anziche' pane, lei per i tunisini non pensava nemmeno a quello, impegnata com'era ad arraffare tutto quello che poteva, alla guida di un clan familiare rapace e organizzatissimo, in cui ciascuno – a cominciare dai fratelli – sapeva cosa fare: semplicemente arricchirsi.

Leila la bella, dai capelli corvini e dagli occhi scuri come la pece, e' stata non la moglie del presidente Zine el Abidine Ben Ali, ma la vera e propria regina borghese di un Paese che verso di lei, nata e cresciuta povera, ha avuto sempre un sentimento di distacco, molto vicino alla ripulsa.

Si', perche' se il marito era in qualche modo sopportato per gli aspetti populistici del suo governare, Leila e' stata sempre temuta e, soprattutto, etichettata come una macchina ''per soldi'', non ''da soldi''. Forse per i suoi natali umili, piu' probabilmente per una mentalita' da imprenditrice, che pero' ha sempre giocato sporco, al di fuori delle regole.

Basti pensare alle molte inchieste che, insieme al marito e ai suoi congiunti, la vedono accusata di malversazioni, corruzioni e concussioni, illegalita' attuate nel totale disprezzo delle leggi, ma soprattutto senza alcun rispetto per il suo popolo. Il palazzo presidenziale di Cartagine, come gli altri di pertinenza della massima carica dello Stato tunisino, era diventato semplicemente il suo palazzo, e dentro di esso era una regina, che decideva tutto, sempre in ossequio al dio denaro.

La letteratura del dopo-rivoluzione su di lei sta diventando sterminata, perche' vengono fuori nuovi episodi, nuovi affaire, alcuni dei quali sarebbero piu' da commediaccia all'italiana che da cronaca giudiziaria. Come il fatto che dalle cucine del palazzo presidenziale uscivano centinaia di pasti destinati a mense scolastiche, ma pagati direttamente a lei.

Vero? Falso? Sarebbe solo un elemento dell'impero del malaffare di cui Leila era a capo insieme ai suoi fratelli, e nel quale ha fatto scuola anche per figlie e generi, e persino per i nipoti. In 23 anni, dopo aver dato a 'Zaba' (il soprannome del presidente) delle figlie e finalmente un maschietto (oggi ancora un bambino destinato a diventare chissa' cosa da grande), Leila Trebelzi e' diventata la piu' odiata dai tunisini, che non le perdonavano nulla – lei, una parrucchiera – ma che mai hanno potuto esprimere il loro dissenso, pena l'ipotesi concreta di finire in fondo ad una cella.

La presidentessa – che faceva collezione di gioielli regalatigli da capi di Stato – e' stata giudicata da un tribunale e condannata a 35 anni di reclusione che non scontera' mai, dopo la fuga dalla Tunisia il 14 gennaio. Ora il tentativo – probabilmente melodrammatico – di suicidio, che non rientra certo nel suo profilo psicologico di donna forte, determinata, spregiudicata, spietata, ma capace di far innamorare Ben Ali e di spingerlo ad abbandonare per lei la prima moglie.

Brava nel creare, con i fratelli, un network di maneggioni che in 23 anni ha spolpato un Paese, cui imponeva tutto perche' in tutto aveva le mani in pasta: supermercati, compagnie di viaggi, radio e televisioni, trasporti pubblici, giornali, agenzia immobiliari e turistiche, concessionarie di tutte le maggiori marche di autovetture e chissa' cos'altro. E tra queste attivita' anche quella di sovrintendere, ogni anno, alle lotterie destinate ai tunisini che vogliono andare alla Mecca in pellegrinaggio.

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