Vaticano in salsa genovese, da Bagnasco a Piacenza sotto il regno di Bertone

Mauro Piacenza
Mauro Piacenza, ministro dell'interno del Vaticano

Qualcuno di qua e di là della Mura leonine incomincia a chiamarlo “il clan dei genovesi”, mettendoci un po’ di perfidia nell’usare un termine non certo ecclesiastico. E qualcun altro, come uno dei più influenti prelati francesi in Vaticano, alla domanda sulla linea attuale della Chiesa italiana, si trincera dietro un caustico commento: “Mi spiace, non so parlare il dialetto genovese”. Ora che Benedetto XVI ha nominato prefetto della Congregazione per la Fede, praticamente ministro dell’Interno vaticano, monsignor Mauro Piacenza, 66 anni, da venti in Vaticano, ex fedelissimo portavoce del cardinale-principe Giuseppe Siri, già vescovo e tra un mese sicuro cardinale, il boom dei genovesi non è più soltanto una leggenda vaticana, un sussurro tra le svolazzanti tonache della Curia, un pettegolezzo velenoso, alimentato dalle invidie e dalle guerre segrete di Oltretevere.

Mauro Piacenza è un genovese doc, che ha scalato la gerarchia ecclesiastica vaticana con una progressione impressionante. Era stato, dopo il 1990, un semplice pretino che sbarcava a Roma, dopo il pensionamento forzato di Siri, lui ultreconservatore, confessionale deluso dalla liberalizzazione che stava prendendo piede a Genova alla fine del regno di 45 anni del suo maestro e vate, il record di ministero arcivescovile nell’intera storia della Chiesa romana: mai nessuno tanto longevo sulla cattedra come Siri, che aveva chinato la testa alla decisione del papa dopo avere sfiorato almeno due volte il Supremo Soglio nei Conclavi che elessero Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Non avrebbe mai immaginato, quel monsignor genovese, figlio unico di un ufficiale della Marina Mercantile, studente del liceo classico Colombo, quello vero della città contrapposto al più aristocratico, smorfioso e “pariolino” Doria (quello, per capirci, dove ha studiato Massimo D’Alema)  e poi a Scienze politiche, folgorato da una vocazione “matura”, orfano del cardinale principe, che la sua parabola a Roma avrebbe toccato il culmine in sintonia con quella di tanti preti genovesi e liguri, saliti al supremo soglio tra il pontificato di Giovanni Paolo II e quello di papa Ratzinger, a cavallo del millennio.

Se ne era andato da Genova, dal suo piccolo ufficio nella Curia dentro ai carruggi genovesi, in quella Piazza Matteotti che poi Berlusconi avrebbe sbeffeggiato per i troppi panni stesi dalle finestre a lordare lo sfondo del suo sciagurato G8 del 2001.

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