WikiLeaks, tensione e critiche tra Londra e Mosca per l’espulsione del giornalista del Guardian

LONDRA – In Gran Bretagna il caso di Luke Harding, il reporter del Guardian espulso dalla Russia, è approdato alla Camera dei Comuni: il sottosegretario agli esteri, David Lidington, ha criticato il Cremlino per la decisione, sottolineando che ”una stampa libera e la libertà di espressione sono elementi vitali di ogni società democratica”.

Lidington ha confermato che il ministro degli esteri, William Hague, ha sollevato il caso con il collega russo, Sergei Lavrov, e che continuerà a farlo quando la prossima settimana Lavrov sarà in visita a Londra.

Il cronista britannico era da mesi nel mirino dei servizi segreti per i suoi commenti poco lusinghieri su Vladimir Putin ottenuti da Wikileaks, per i suoi viaggi a rischio nelle turbolente repubbliche del Caucaso del Nord oltre che per i rapporti stretti con leader dell’opposizione. E

Oggi Harding ha usato parole di fuoco contro i leader russi, senza fare nomi: ”Fanno i duri ma hanno paura, hanno paura dell’opposizione e hanno paura dei giornalisti occidentali che scrivono articoli critici sul loro conto”, ha detto in un’ intervista al sito online del quotidiano russo Kommersant.

Al giornalista è stato rifiutato l’ingresso in Russia al suo arrivo a Mosca con un volo proveniente da Londra. Dopo avere passato quasi un’ora in un centro di detenzione all’aeroporto è stato rispedito in Gran Bretagna e il suo accreditamento è stato annullato, senza spiegazioni.

Oggi un dirigente delle guardie di frontiera, che dipendono dall’intelligence, ha detto che i suoi servizi hanno la facoltà di ”vietare l’ingresso a un cittadino straniero senza fornire spiegazioni”.

Il ministero degli esteri si è limitato a far sapere che Harding ”ha violato alcune regole che i giornalisti stranieri sono tenuti a rispettare” in Russia, legati al suo accreditamento, e ha assicurato che il capo della diplomazia russa, Serghiei Lavrov, ha parlato al telefono con il collega britannico, William Hague, e ”si è impegnato a esaminare il caso”.

Il corrispondente del Guardian era rientrato a Mosca dopo due mesi passati a Londra a lavorare su cablogrammi di Wikileaks, in base ai quali aveva scritto che sotto Putin la Russia era diventata ”praticamente uno stato mafioso”.

Inoltre, citando un altro file intercettato dal sito di Julian Assange, Harding aveva scritto che l’allora presidente (e ora premier) Putin avrebbe dato il via libera all’assassinio, nel novembre 2006, di Aleksandr Litvinenko, l’ex agente del Kgb morto a Londra dopo una lunga agonia per aver ingerito una dose di polonio radioattivo.

Ma oggi emergono altri retroscena. Al giornale Kommersant Harding ha detto che, per le autorità russe, il suo lavoro sui file di Wikileaks ”è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Già nel novembre scorso – ha raccontato – era stato convocato dal dipartimento per l’informazione del ministero degli esteri, che aveva minacciato di annullare il suo accreditamento.

Alcuni mesi prima Harding era stato fermato per alcune ore dalle forze di sicurezza in Inguscezia, dove era entrato senza permesso in una zona ”off limits”, e nello stesso mese si era recato in Daghestan per intervistare il padre di una delle due kamikaze che in marzo si erano fatte saltare in aria nella metropolitana di Mosca (40 morti, 130 feriti).

Inoltre, secondo il giornale online Gazeta.ru, Harding avrebbe collaborato a un libro scritto da due leader dell’ opposizione, Boris Nemtsov e Vladimir Milov, in cui si denuncia l’opacità dei rapporti fra Putin e il magnate del petrolio Ghennadi Timcenko, indicato da più parti come il gestore della cassa nera del Cremlino, anche se lui ha sempre smentito. Una giovane giornalista moldava, Natalia Morar, fu cacciata dalla Russia nel 2008 per aver scritto dei presunti fondi neri del Cremlino.

Harding non è il primo giornalista britannico ”scomodo” a essere espulso da Mosca. Ma l’ultimo caso clamoroso risale al 1989, quando il reporter del Sunday Times Angus Roxburgh fu mandato via in ritorsione per l’espulsione da Londra per spionaggio di undici sovietici, decisa dal governo di Margaret Thatcher.

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