Berlusconi e gli spot, il Pci di D’Alema lo aiutò contro i giornali, Scalfari e Caracciolo alla guerra di Segrate

I tentativi degli editori di giornali di limitare il dilagare della pubblicità televisiva furono vanificati da Berlusconi con l’appoggio dei comunisti guidati da Massimo D’Alema. Ho vissuto quei momenti da vicino.

Questa è la seconda parte di questa mia analisi su Silvio Berlusconi. La prima parte è qui:

Berlusconi, il migliore e il peggiore di tutti, analisi e testimonianze: creò un impero, fu salvato dai comunisti

La terza è qui

Come Berlusconi costrinse Cuccia a salvarlo: persa Repubblica, a fondo con Standa, la politica lo tolse dai guai

Ecco il seguito.

Era il 1998, tempo della bicamerale.

Massimo D’Alema voleva cambiare l’Italia, con gabile come presidenzialismo e elezione diretta del premier, come vent’anni dopo provò a fare Matteo Renzi. Erano in ballo sempre le stesse utopie che oggi frullano nel giro di Giorgia Meloni.

L’unica riforma che era interessante per Berlusconi era quella che avrebbe ingabbiato e subordinato a lui la Magistratura.

Per questo il dialogo saltò. Il partito di D’Alema non poteva reggere l’impatto di un massacro dei magistrati.

Ma Berlusconi qualcosa comunque ottenne, perché nel procedere, saltò anche l’ultimo tentativo di contenere il dilagare degli spot.

La speranza dei giornali era affidata a un disegno di legge noto col suo numero identificativo, 1138. Doveva ridurre contemporaneamente gli affollamenti pubblicitari di Rai e tv private rendendo disponibili per la carta stampata le risorse che non avrebbero trovato spazio nell’etere.

Andò avanti per mesi in una commissione del Senato. Taccio per carità di sinistra sulla vergognosa pantomima inscenata da comunisti illusi e perbene.

Andavo spesso a riunioni fino a quando, un giorno, uscendo, faccio un tratto di corso Rinascimento, fuori del Senato, con un collega che fu bravo direttore di giornali, persona integerrima e anche genovese seppur di adozione.

Gli dico da ingenuone: “Dai facciamo uno sforzo, questo un buon momento per una rinascita dei giornali”.

Lui mi risponde sconsolato: “Lasciate perdere, è tutto deciso”.

Berlusconi, in un angolo della Bicamerale, aveva piegato i Ds o Pds di D’Alema. Ma non se ne fidava. Così, dando una ulteriore prova della sua capacità di non lasciare aperto per l’avversario neanche uno spiraglio, convinse il relatore, un ex democristiano suo acerrimo nemico, a lasciare lo schieramento di sinistra con funambolismi democristiani.

Al di là di tutte le chiacchiere Berlusconi ebbe solo tre nemici giurati: la sinistra democristiana, il potere giudiziario e Carlo De Benedetti.

Di quest’ultimo dirò oltre, della magistratura si può solo dire che lo portò a un passo dal carcere, della sinistra Dc pochi ricordano le dimissioni in gruppo dei suoi ministri nel 1990 per ottenere l’approvazione della legge Mammi che fu la sola iniziativa politica che limitò lo strapotere del Nostro.

Di quella pattuglia di eroi faceva parte l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Pochi ricordano ma Berlusconi non ha mai dimenticato. Questo spiega la trentennale ostilità di Berlusconi verso Mattarella, che solo l’astuzia valligiana di Renzi riuscì a aggirare.

Ma non dovette a nessuno il suo successo, usò tutti, P2 inclusa, li piegò ai suoi disegni. Fece tutto da solo.

Per questo va inserito fra i personaggi più importanti del panorama politico e imprenditoriale italiano dall’Unita a oggi.

Siede nell’empireo della nostra storia provinciale ma popolata di grandi come Agnelli, Valletta, Pirelli, Gualino, Ansaldo, Perrone, Rubattino, Bombrini, Faina e tanti altri, fra i pionieri che hanno trasformato l’Italia da un Paese di contadini analfabeti a una delle nazioni più ricche del mondo. 

Guai però paragonarlo con Agnelli. Giovanni Agnelli senior e gli altri che ho elencato e altri ancora erano titani. Come Agnelli fu grande nel rapporto con i dirigenti e in genere i dipendenti.

Berlusconi fu un uomo geniale che intercettò il trend degli anni ‘70, verso la tv commerciale.

Fu un grande imprenditore, visionario e anche capace, nella sua assoluta diffidenza, di ascoltare i suoi collaboratori. Non fu un industriale: fu un grandissimo venditore: di pubblicità, prima, di politica dopo. Forse per questo non fu cattivo: opportunista, anche spietato, ma non cattivo. Avrebbe potuto distruggere i suoi avversari, quando era all’apice, ma non lo fece. Lo fecero gli altri con lui, anche se non per il suo fallimento politico ma per le sue intemperanze amatorie.

Lui era uomo di pace, alla sua maniera: la guerra era inutile, quando potevi comprare gli avversari. 

Se fu un grande imprenditore, lo fu molto meno come politico. Niente lo può fare paragonare a un Cavour ma nemmeno a un Crispi o un Giolitti. E nemmeno a De Gasperi o Togliatti.

La causa del suo fallimento politico è insita nella motivazione della sua attività politica. La maggior parte dei politici è mosso, al di là della voglia di arricchirsi (marginale) o di non lavorare (oggi abbastanza evidente), da una idea. Così fu per i giganti della storia, così è per i grandi e meno grandi di oggi, Putin e perfino Trump inclusi.

Berlusconi entrò in politica non per realizzare una idea politica ma per servirsi della politica, e delle sue idee, come di un altro qualsiasi strumento a disposizione di un imprenditore, per proteggere e difendere la sua impresa, nello specifico le sue televisioni.

Tutto ruotava in funzione di Canale5, Rete4, Italia1. Il resto era attività al loro servizio. Infatti, Berlusconi fu titano nella tv, mediocre editore di giornali.

Per proteggere le sue tv spadroneggiò in Europa. Come primo ministro, la sua gestione del rapporto con la Commissione e la burocrazia europea fu nella continuità fra il pessimo di prima e il pessimo di dopo. 

Questo vizio di origine dell’attività politica di Berlusconi ha vanificato gli effetti della sua abilità e della sua superiorità rispetto a tutti i politici italiani suoi contemporanei.

Non si deve dimenticare che l’impero di Berlusconi è stato fuori legge fino al 2011, quando finalmente entrò in funzione in Italia il digitale terrestre. Racconto più avanti questo educativo e poco edificante capitoletto della storia italiana recente.

Sempre tenendo presente il peccato originale della politica di Berlusconi, non si può non riconoscere che nei suoi anni al governo l’Italia resse con onore l’onda della crisi mondiale del 2008 (il declino ebbe inizio col governo tecnico che gli succedette), fu raggiunto il pareggio del bilancio corrente (merito di Giulio Tremonti più che suo), un italiano fu posto a capo della Banca centrale europea.

Questo ultimo fatto costituisce un bell’esempio della sua eccezionale capacità di visione tattica e di manovra. Se avesse applicato davvero queste sue doti a riformare l’Italia chissà dove saremmo ora. Ma come ho detto e ripeterò, a Berlusconi importava solo delle sue tv.

E Mario Draghi presidente della Bce, allora? Ci fu costretto per levarselo di torno. Draghi litigava con Tremonti su tutto e questo era un fastidio quotidiano. In più non c’era spunto che Draghi (allora governatore della Banca d’Italia) non cogliesse per dare il tormento a Berlusconi. Se Repubblica enfatizzava, anche un po’ faziosamente e forzatamente, un aspetto negativo della economia italiana (il Governo Prodi magari aveva fatto peggio, ma la distorsione dei fatti era regola), subito la Banca d’Italia rilanciava la notizia aggravandoli col suo avallo.

Ebbi il sospetto, a quei tempi, verso il 2009-2010, che Draghi volesse fare le scarpe a Berlusconi.

Le mosse di quest’ultimo per liberarsi dell’incomodo furono magistrali.

Consapevole del fatto che il Governo italiano non sarebbe mai stato in grado di far passare la candidatura di un connazionale, Berlusconi si comprò l’appoggio francese, il cui presidente, Nicolas Sarkozy, aveva nel frattempo sposato una torinese. Il prezzo per il Paese fu salato: la Parmalat a prezzo di saldo, centrali nucleari impossibili ma carissime, soprattutto il tradimento dell’amico Gheddafi, abbandonato, pur controvoglia al fuoco dei mitra manovrati dagli interessi petroliferi anti-italiani dei francesi.

Angela Merkel, cancelliere tedesco, poteva anche avercela con gli italiani vu cumprà e traditori con l’aggravante della “culona intrombabile” con cui l’aveva bollata Berlusconi con l’aggiunta di pubbliche umiliazioni tipo quella volta che la lasciò ferma in piedi ad aspettarlo mentre lui al telefonino organizzava una serata elegante a Arcore.

Ma Angela Merkel non poteva dire di no a Italia e Francia unite. Così ebbe inizio il mito di Draghi e la sua tenuta a Francoforte.

Berlusconi politichese fu geniale quanto spregiudicato al massimo in occasione della sua discesa in campo, arruolando i post fascisti del Msi, chiudendo un pezzo di cosiddetta “guerra civile”. La definizione di guerra civile è per me forzata e profondamente errata ma certo è che con quella mossa Berlusconi scardinò il quadro politico italiano.

Fino a quel momento i post o ex fascisti del MSI erano i reietti della politica italiana. “Fascisti carogne tornate nelle fogne” era un mantra della sinistra. C’era l’arco costituzionale, che andava dai liberali ai democristiani ai comunisti, figlio del compromesso storico, escludendo i camerati dal gioco politico nonché da quello del potere reale e degli appalti.

La spregiudicatezza di Berlusconi spiazzò tutti. Quando fu annunciata la candidatura di Gianfranco Fini a sindaco di Roma, sponsorizzata da Berlusconi, ricordo Scalfari urlare fremente: “Un fascista in Campidoglio”. Qualche anno dopo Scalfari coccolava Fini, arruolato fra i nemici del Cavaliere, e Roma ebbe Gianni Alemanno: non saprei scegliere fra i due).

Vista trent’anni dopo la mossa di Berlusconi appare come uno dei fatti di maggiore portata e conseguenza della sua attività politica. Bisogna però sempre ricordare che la politica non era al servizio di un ideale quale che fosse, ma di un interesse imprenditoriale ben preciso: Mediaset.

Anche il recupero dei fascisti al gioco democratico va a onore della capacità di Berlusconi di vedere sempre un metro più avanti di tutti.

Ma lui già si muoveva sotto traccia anni prima della “discesa in campo” nel 1994. Ho un ricordo diretto del 1990, dal tempo in cui ero un dipendente della Mondadori, guardato con sospetto perché di provenienza caraccioliana.

Per mia fortuna depose a mio favore Amedeo Massari, uomo di Berlusconi per la carta stampata, grande e innovativo dirigente di giornali. Lo conoscevo da Genova, nel lontano 1968, quando Massari era direttore amministrativo del Secolo XIX e io ventenne redattore dell’Ansa. E mi voleva bene.

Massari era diventato il mio referente e per essere ragguagliato mi diede appuntamento a Roma in via della Scrofa, al portone della sede del Msi e del suo quotidiano Il Secolo d’Italia. Mi spiegò: “Il Dottore mi ha mandato ai insegnargli [a quelli del Msi] un po’ di cose sui giornali”. 

Ma per quanto riguarda l’Italia non cambiò nulla, non toccò l’apparato perché erano voti, non toccò le cooperative perché erano inserzionisti. Per un po’ di anni, a fine estate partivano i rantoli minacciosi, contro le coop e contro i magistrati e sappiamo come è andata a finire.

Si parla ancora di Editto Bulgaro. Ecco le parole precise: «L’uso che Biagi… Come si chiama quell’altro? Santoro… Ma l’altro? Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga.»

Berlusconi le pronunciò mentre passeggiava con dei giornalisti durante un viaggio a Sofia, in Bulgaria. Quelle parole le ha dette ma forse il direttore generale della Rai fu un po’ troppo solerte nell’eseguire.

Di Berlusconi non ti potevi e non ti dovevi fidare. Pensava l’opposto di quello che diceva, faceva l’opposto di quel che prometteva.

Agli inizi della guerra di Segrate, quando ancora mi convocavano alle riunioni, al termine del pranzo in mensa, Berlusconi mi prende per un braccio e mi pilota all’ascensore. Mentre saliamo verso il quinto piano (mi pare proprio il quinto), soli lui e io mi fa: “Dica a Caracciolo di scaricare De Benedetti e di accordarsi direttamente con me”.

Appena all’aeroporto di Linate, mi attacco a un telefono pubblico (i telefonini erano di là da venire) e chiamo Caracciolo. Premesso che mi sembra una proposta poco credibile, riferisco parola per parola. La replica: “Ha proposto a Corrado Passera [all’epoca braccio destro di De Benedetti] la stessa cosa stamattina”.

La guerra di Segrate, cioè la contesa politica e giudiziaria per il controllo di Repubblica, all’epoca controllata dalla Mondadori, durò circa un anno fra il 1989 e il ‘90.

Causa remota fu la vendita, nella primavera del 1989, dei pacchetti azionari con cui Caracciolo, Scalfari e alcuni loro amici controllavano L’Espresso, a sua volta detentore del 50% di Repubblica. L’altro 50% era della Mondadori. Giorgio Mondadori e Mario Formenton da una parte, Caracciolo e Scalfari dall’altra, avevano fondato Repubblica, uscita in edicola nel febbraio del 1976.

A seguito della crisi provocata dal dissesto di Rete4 (si veda più sotto), De Benedetti e Berlusconi erano diventati importanti azionisti della Mondadori, accanto alle figlie del fondatore e dei loro figli.

Con una serie di abili mosse, De Benedetti si era garantito anche un cospicuo pacchetto azionario da parte degli eredi in misura tale da parlare e agire come fosse già padrone del vapore. Ma aveva fatto i conti senza l’oste Berlusconi e senza gli effetti del suo intemperante carattere.

Intanto, con la regia di De Benedetti, la Mondadori aveva acquisito il controllo dell’Espresso e quindi del 100% di Repubblica. Il giornale di Scalfari viveva i suoi momenti di gloria, vendendo 600 mila copie e più ogni giorno, una miniera d’oro e di potere.

Da un punto di vista editoriale era una prospettiva formidabile: 3 reti tv (e di nascosto anche il primo nucleo della futura Sky, Telepiù), il primo quotidiano italiano, i due grandi newsmagazines, un grandissimo editore di libri.

Si profilava una concentrazione di potenza di fuoco presso un proprietario troppo vicino al partito comunista perché il leader socialista Bettino Craxi (e alla luce dei successivi sviluppi non gli si può dare tanto torto).

Craxi era legato a Berlusconi a filo doppio e gli affidò la missione di far fuori De Benedetti.

Berlusconi agì su due fronti: gli eredi Mondadori e il duo Caracciolo-Scalfari.

I due amici e soci, avendo incassato alcune centinaia di miliardi di vecchie lire, erano destinati a un ruolo decisivo nel nuovo grande gruppo ma non credo includesse, come poi invece avvenne, la prospettiva di diventare dipendenti di De Benedetti, per snobismo e senso di superiorità intellettuale. Soprattutto cercavano di ritagliarsi un ruolo diverso e decisivo, meglio di quello quasi onorifico di presidente riservato a Caracciolo.

Così passarono estate e autunno di 1989 a trescare con Berlusconi, il quale a sua volta raccoglieva i frutti delle intemperanze caratteriali verso gli eredi Mondadori: un accordo saltò per una impuntatura su pochi miliardi, un altro, già firmato, venne stracciato come reazione ai comportamenti sconsiderati di De Benedetti.

Così Berlusconi si trovò nuovo azionista di controllo della Mondadori senza più bisogno di accordarsi con Caracciolo e Scalfari.

Caracciolo ha raccontato la sera in cui Berlusconi gettò la maschera in un libro intervista con Nello Ajello. Personalmente la storia l’ho sentita più volte.

Caracciolo arriva per cena nel pied-à-terre di Berlusconi in via Rovani a Milano.

Berlusconi lo accoglie con un brutale: “Inutile andare avanti, è tutto finito, ho preso tutto io”. Caracciolo non controlla l’ira e grida: “Mascalzone!”. L’altro tranquillo: “Se non lo facevo io lo faceva lui” cioè De Benedetti.

Caracciolo poi completava il racconto con questo seguito per lui molto divertente: Mi sono ricomposto e gli ho fatto notare che mi aveva invitato a cena. Berlusconi contava sul fatto che io me ne sarei andato via furibondo. Fu così costretto a mettere assieme un menù con grande confusione e irritazione. Io ho cenato e sono andato a dormire.

La cosa non finì lì per mia fortuna. Seguì una serie di colpi legali e tribunalizi. Ma il colpo decisivo venne dalla politica. Se tutti quei giornali in mano ad amici del Pci non andavano giù a Craxi, il loro spostamento a fianco degli alleati rivali socialisti non poteva essere gradito al leader democristiano Giulio Andreotti.

Ma come arrivare ad Andreotti, che Scalfari detestava tanto da definirlo simile a Belzebù?

Caracciolo pensò a Giuseppe Ciarrapico, editore di destra esordiente nella sanità, col quale da anni aveva stabilito un cordiale rapporto.

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Marco Benedetto