Cecilia Sala, ospite da Fabio Fazio a Che tempo che fa, racconta per la prima volta in tv i 21 giorni di prigionia passati nel carcere di massima sicurezza di Evin, in Iran, in una cella lunga 2 metri per 3.
La giornalista spiega di essere stata sottoposta a interrogatori che duravano anche 9 ore e che venivano svolti “incappucciata con la faccia rivolta al muro”. Detenuta in isolamento, Sala ha temuto per i suoi nervi: “L’isolamento serve per farti crollare, aumentare le accuse a mio carico e farmi diventare un ostaggio di maggiore peso. In uno degli interrogatori sono crollata e ho preso una pasticca. Chi mi interrogava parlava perfettamente inglese e conosceva bene l’Italia”.
Poi aggiunge: “Non avevo gli occhiali, perché considerati pericolosi, ma almeno le lenti a contatto avrebbero potuto darmele. Mi hanno dato da leggere il libro Kafka sulla spiaggia, scelto da loro. Avevo chiesto il Corano in inglese, pensando che fosse un libro che non mi avrebbero negato, ma mi è stato rifiutato. Ho passato il tempo a contarmi le dita e a leggere gli ingredienti sulle buste”.
Nella prima telefonata con le autorità italiane, “ho detto di essere stata arrestata, ma non ferita. Grazie a un linguaggio in codice, riuscivo a trasmettere informazioni: non avevo materasso né cuscino ed ero costantemente controllata. I primi 15 giorni ho avuto interrogatori tutti i giorni”.
Cecilia Sala, durante l’intervista, afferma di non voler dimenticare le persone ancora detenute “che non hanno la fortuna di essere protette dal proprio Paese”. Per sopravvivere, ha pensato alle cose belle della sua vita e al fatto che prima o poi le avrebbe riavute. E descrive lo scatto con il compagno Daniele, che viene da lei abbracciato una volta scesa dall’aereo che l’ha riportata in Italia, come “la foto più bella della mia vita”.
Parlando della detenzione, l’emozione prende spesso il sopravvento. “Il tempo ti si spezza”, dice. La giornalista, da Fazio ripercorre anche i momenti dell’arresto: “Mi hanno prelevata nella mia camera d’albergo mentre lavoravo. In macchina ero incappucciata, con la testa abbassata verso il sedile. Ho capito che mi stavano portando in carcere dal rumore del traffico e dalla strada che stavamo percorrendo”. Solo il giorno successivo le è stato concesso di fare le telefonate all’ambasciata o ai familiari “per giustificare la mia sparizione”. Poi l’amara conclusione: “Non tornerò in Iran, almeno finché ci sarà la Repubblica Islamica”.