La Francia rifiuta di gettarsi nelle braccia di Marine Le Pen e dell’estrema destra. Il verdetto del secondo turno elettorale è talmente chiaro che si commenta da solo. Il sistema elettorale a doppio turno consente di ‘correggere’ il risultato del primo, ma stavolta si tratta di ben altro: il voto del 30 giugno è stato spazzato via.
Il Rassemblement National lepenista, partito di maggioranza relativa alla prima manche con il 33,2 %, è stato relegato al terzo posto. Nessun sondaggio aveva previsto una disfatta di queste proporzioni, malgrado la frenata sovranista fosse nell’aria.
Le Pen può consolarsi dicendo che «la nostra vittoria è solo differita», ma la botta è dura: il fronte repubblicano improvvisato per bloccare l’estrema destra ha funzionato al di là di tutte le previsioni.
Nemmeno lo spauracchio di Jean-Luc Mélenchon, leader radicale di ascendenze trotzkiste e dagli accenti antisemiti, ha impedito al cartello elettorale della sinistra di arrivare in testa.
Un cambio di rotta così radicale non si era mai visto sotto la Quinta Repubblica. Ottantaquattro anni dopo l’arrivo al potere del maresciallo Pétain, la Francia ha rifiutato di dare le chiavi del potere ai suoi eredi.
Non è un rigetto scolpito nell’eternità, il futuro non è prevedibile. Ma tutti i partiti democratici hanno scelto e rispettato la lealtà repubblicana: la sinistra in tutte le sue diverse anime, il centro macroniano e la destra democratica, che ha rifiutato di svendersi ai lepenisti, hanno deciso di ritirare i loro candidati per evitare la vittoria dell’estrema destra.
E i loro elettori li hanno seguiti, malgrado le reticenze che alcuni potevano avere verso questo o quel candidato. Del resto, l’alto tasso di partecipazione, un record da oltre quarant’anni, dimostra la mobilitazione del paese.
I vincitori sono indubbiamente tre. Prima fra tutti la sinistra, che arriva in testa. Adesso dovrà affrontare le divergenze e le rivalità tra l’ala socialdemocratica e quella radicale, ma ha dimostrato di saper agire di fronte a un’emergenza: prima con un cartello elettorale in cui pochi credevano, poi ritirando i suoi candidati in favore di centristi e destra moderata quando era necessario.
Un buon successo l’hanno avuto anche i Repubblicani. Il loro presidente, Eric Ciotti, si era precipitosamente alleato con i lepenisti, sperando di salire sul carro del vincitore. Gli altri hanno rifiutato: sono arrivati solo quarti, ma hanno confermato la loro rappresentanza parlamentare senza svendere la loro anima. Non è poco.
Infine, Macron e il suo partito. Ridimensionato rispetto a due anni fa, ma molto più in alto di quel che predicevano i sondaggi. Lo scioglimento dell’Assemblea nazionale è stata una mossa azzardata, ma in qualche modo vinta: il presidente ha dimostrato che il Paese rifiuta all’estrema destra l’accesso al potere. Il voto del secondo turno lo indebolisce solo fino a un certo punto, anche se non potrà più dare le carte da solo.
C’è però un contraltare: in Parlamento non c’è una maggioranza. Nel momento in cui scrivo, è inutile disegnare scenari più o meno campati per aria. Siamo di fronte a una classica situazione in cui bisogna lasciare tempo al tempo.
Gabriel Attal, come vuole la prassi, oggi darà le dimissioni, ma è impossibile dire quando sarà nominato il suo successore. Nel suo discorso dopo il voto, Attal è stato lucido e ha preso le distanze da Macron.
Dopo aver detto di aver ‘subìto’ lo scioglimento, ha sottolineato l’inizio di una nuova èra: «A partire da domani (l’8 luglio, ndr.), il centro di gravità del potere sarà più che mai nella mani del parlamento». Un primo ministro ancora in carica, per quel che ricordo, non ha mai sottolineato così nettamente l’affievolimento del potere presidenziale.
Infine, una parola sugli sconfitti. Che portino il nome di Marine Le Pen e del suo delfino, Jordan Bardella, è sotto gli occhi di tutti. Ma bisogna dire che sul fronte europeo la settimana è stata disastrosa per il governo dei sovranisti di casa nostra.
Giovedì, Giorgia Meloni ha dovuto incassare l’umiliazione del suo amico Rishi Sunak, il conservatore britannico che si era inventato la deportazione in Rwanda degli immigrati in situazione irregolare, una scelta sostenuta con grande convinzione dalla nostra presidente del consiglio.
E adesso Matteo Salvini e Ignazio La Russa (con la sua intervista al ‘Giornale’) devono inghiottire il rospo della disfatta lepenista: in appena quattro giorni, sono due belle sberle.