Mentre la destra esulta perché la Camera ha detto il primo si alla separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, la stessa maggioranza trema perché in Veneto la Lega non arretra di un passo: Luca Zaia deve rimanere governatore. Giorgia Meloni cerca una scappatoia, Matteo Salvini è con il Carroccio, ma non può rompere un’alleanza che sta guidando il Paese da due anni e mezzo.
Meloni riesce dove Berlusconi non riuscì
Due facce, due reazioni: la prima è di giubilo, “perché la linea di Silvio Berlusconi ha vinto”; la seconda perché i veneti non sono disposti a venire a patti. Una giornata particolare, insomma, tra entusiasmo e perplessità. Proprio non si può mai dire che finalmente tra le forze politiche si è trovato un denominatore comune.
A Montecitorio, chi ha vinto parla di un fatto storico: “le toghe rotte”, titola in prima pagina un giornale vicino alla destra. Il ministro Carlo Nordio è sicuro che ci saranno in futuro più garanzie per i cittadini. I magistrati ritengono che avvenga l’esatto contrario ed entrano in fibrillazione, pronti a dare battaglia su tutti i fronti.
Carriere, solo al primo gradino
Attenzione: è normale che la maggioranza sorrida per il voto della Camera, però è giusto ricordare che i “si” dovranno essere quattro, altri due del Senato e l’ultimo che spetta ai deputati. Il cammino è lungo, ma intanto “è stata posta la prima pietra”.
E’ un traguardo di grande importanza (ammesso che si possa definire così) raggiunto dal governo. Il premierato, la riforma delle riforme, è finito nel dimenticatoio e forse non avrà vita fino al 2027.
Sull’autonomia differenziata c’è il pericolo di un referendum popolare che non si sa mai dove andrà a parare. Allora è logico che la maggioranza non stia nei panni per aver sconfitto quanti questa “rivoluzione” non la digeriscano e non la vogliano. Sarà dura perché quando i magistrati si mettono di traverso è difficile prevedere che cosa accadrà. La speranza di chi guida il Paese è che ad un certo punto le varie correnti che dividono i giudici spacchino la protesta che non avrà più la stessa forza che servirebbe per far trionfare il no.
Non sono tutte rose per Giorgia Meloni ed i suoi fedelissimi: le gatte da pelare sono tante e la più delicata è quella che riguarda il nome del governatore del Veneto. “Squadra che vince non si tocca”, dicono i leghisti ripetendo uno slogan caro agli allenatori di calcio che debbono decidere la formazione della prossima partita di campionato. Ma il consiglio dei ministri ha detto no al terzo mandato. “Chi se ne frega di Roma”, rispondono gli esponenti del Carroccio all’unisono. “Il nostro presidente rimane là dov’è oggi e guai a chi lo vuole farlo fuori. Siamo pronti a correre da soli ed è bene che i Fratelli d’Italia sappiano come la pensiamo”.
Perché proprio il partito della premier è sotto il tiro infuocato dei legisti? Semplice: perché è il partito di maggioranza dappertutto e nel Nord non hanno loro rappresentanti al vertice delle regioni. “Troveremo una quadra”, sostiene Matteo Salvini che è preso tra due fuochi: gli iscritti al suo partito e la carica di vice premier oltre che di ministro delle infrastrutture. Le parole del “contestatore a tutti i costi” sono dettate dall’ottimismo, ma sa perfettamente che la situazione non è affatto facile.
I consensi degli italiani per Giorgia crescono, se lei esprime un desiderio (giusto o sbagliato che sia) non le si può replicare con un “no e basta”. “Viva la riforma della giustizia”, tuonano da Palazzo Chigi, ma nel cuore dell’esecutivo si è coscienti che la grana dei governatori è importante e delicata.
Oltre a Zaia c’è pure un caso De Luca da risolvere in Campania. Per fortuna, in questa circostanza l’alleanza di governo ha l’aiuto di Elly Schlein che non ne vuol sapere di dire si al terzo mandato. E’ o non è un periodo difficile per chi fa politica in Italia?