In Cile 50 anni fa c’ero, aspettando la catastrofe. La Avenida Alameda O’ Higgins tagliava Santiango in due, il “barrio alto”, abitato dalla borghesia alta e media e quello “basso” che finiva nelle “città miseria”.
Ai piedi delle Ande nello scenario incredibile del Cile, lungo, stretto, in fondo al mondo alla fine del mondo e, verso Occidente, quella muraglia di vette e ghiacci eterni, confine con il Continente, con l’Argentina, immensa, larga, opulenta e sempre ribollente.
Camminavo, da giovanissimo cronista alle primissime armi, lungo la Avenida qualche mese prima del golpe, che ora compie 50 anni. Cercavo notizie, inseguendo i grandi inviati dell’epoca, Mario Cervi del “Corriere della Sera”, Francesco Rosso della “Stampa”, “Saverio Tutino” dell’Unità.
Speravo di capire perché nel pieno dell’inverno australe ci fosse quella atmosfera di grande tensione, la sensazione di un incubo incombente, di una catastrofe in arrivo. La Moneda, il grande palazzone grigio del governo, dove Salvador Allende sarebbe stato bombardato e poi si sarebbe suicidato, mentre la “sua” aviazione attaccava, sembrava un castello immerso nella tempesta.
Ma in quei giorni delle mie perlustrazioni dall’altra parte del mondo, in fondo all’America, l’Esercito era ancora apparentemente fedele, al comando del generale Carlos Prats Gonzales , nominato ministro dell’Interno proprio per assicurarsi contro i timori oramai sempre più forti.
Tutti aspettavano il golpe in Cile, governato da tre anni e mezzo dal governo di Unitad Popular, i comunisti e i socialisti vincitori dopo decenni, con quel presidente medico che era riuscito a farsi eleggere al terzo tentativo e che stava trasformando il paese. Nazionalizzava, collettivizzava, aveva espropriato tutte le miniere di rame che erano il tesoro del Cile.
Non era un estremista Allende, ma aveva un disegno chiaro di riforme socialiste da attuare e le frange più estreme, quelle dei rivoluzionari del MIR (Movimento Izquierda Rivoluzionaria) spingevano, spingevano ispirati dal loro carismatico leader, Carlos Altamirano, un socialista border line.
I comunisti erano più cauti. Il loro motto era “consolidar para avançar”, ma nei contrasti della sinistra c’era la sensazione che il paese fosse sull’orlo del precipizio.
Gli Stati Uniti erano all’erta da tempo, come hanno confermato le recenti memorie di Kissinger. che allora era segretario di Stato con Nixon presidente.
Il Cile era un’eccezione “mondiale”, piantata in mezzo all’ America Latina, pieno Occidente: con Cuba era la intollerabile punta rivoluzionaria.
In Argentina aspettavano il ritorno clamoroso di Peron, in Brasile c’erano al potere i militari, con le loro “squadre della morte”.
Quel Cile affascinava molto anche in Italia.
“Spaghetti in salsa cilena” era lo slogan per indicare una tendenza a trasferire nel nostro paese una alleanza di sinistra al Governo. Ne parlava soprattutto un leader come Enrico Berlinguer, ma c’erano anche molti democristiani interessati a seguire quell’esperimento che aveva installato per la prima volta in America Latina, in un paese che mai era stato governato dalla Sinistra, un governo socialcomunista. Era un “compromesso storico” ante litteram da esportare.
Tra i grandi osservatori italiani c’era il genovese Paolo Emilio Taviani, allora ministro del Bilancio e della Programmazione, in un governo Andreotti, dove c’erano anche i liberali e gli altri partiti laici, nel moto perpetuo dei governi italiani, tra centro sinistra, centro destra, monocolori Dc. Perchè non “copiare” l’esempio cileno?
Ero partito per il Cile, spinto proprio da Taviani, per fare una inchiesta per conto dell’ASCA, allora l’agenzia giornalistica cattolica che forniva notizie e servizi a tutta la rete dei giornali cattolici italiani.
Uno dei sette figli di Taviani, Cesare, era volontario in Cile, dove faceva praticamente il missionario a Concepcion, aiutando la popolazione più povera.
Perlustravo Santiago con in tasca tanti indirizzi di leader e personaggi di quella ribollente realtà politica da intervistare per capire come andava quell’esperimento cileno e per raccontarlo, sfruttando anche le amicizie democristiane di Taviani.
Eduardo Frei, il presidente predecessore di Allende, un democristiano cileno, era amico del ministro genovese e mi aiutava nelle mie ricerche.
Nel barrio alto, nei quartieri più borghesi, c’era la percezione di una attesa per un rivolgimento traumatico molto vicino. La città, ma un po’ tutto il paese, sembravano in ginocchio. I camionisti erano in sciopero da tempo e questo produceva il “desabastacimiento”, la mancanza di forniture di ogni tipo, da quelle alimentari a tutta la rete commerciale, la benzina, i pezzi di ricambio delle auto, degli elettrodomestici…..
Le vetrine erano vuote, la gente disperata.
I giornali spiegavano che erano gli Usa a stringere il cappio intorno al Cile, temendo una seconda Cuba in America.
Nel “barrio basso, sotto la avenida Alameda O’ Higgins, che io percorrevo come un confine, la tensione era diversa perché i leader più radicali pensavano che bisognasse estremizzare le loro riforme, sopratutto le nazionalizzazioni, per rompere quel cerchio che si stava stringendo il tutto il paese e dimostrare che la strada della rivoluzione cilena era senza ritorno. Quindi il loro contro slogan era “avancar para consolidar”.
Allende era sottoposto a una grande pressione interna e esterna.
I militari, che avevano una lunga tradizione di fedeltà ai governi, erano osservati speciali, giorno per giorno.
La nomina di Carlos Prats Gonzales, comandante delle Forze Armate, a ministro dell’Interno, facendolo entrare nel governo di Unitad Popular, insieme ad altri due generali, era stata la mossa per far finire quello sciopero dei camionisti, orchestrato dall’estero per mettere in ginocchio il Cile.
Lo sciopero era poi finito, ma Prats fu coinvolto in altre dure polemiche, mentre la situazione stava precipitando.
Quello cileno era un esercito addestrato, nella sua storia dalle forze armate tedesche e non a caso quando le truppe sfilavano battevano il passo dell’oca. Lo ricordo come un segnale, in quelle giornate dure, mentre sentivo rimbombare il passo cadenzato intorno a Plaza De Armas.
In due tentativi, andati a vuoto, generali anti governo avevano già tentato di sollevarsi contro Allende. Addirittura uno di questi tentativi, denominato “Tanquetazo”, perché si erano mossi contro il governo i tanques, i mezzi corazzati, era culminato con delle cannonate sparate contro il palazzo della Moneda.
Prats poi era stato costretto a dimettersi anche da comandante dell’esercito. Aveva lasciato quel ruolo al suo secondo, Augusto Pinochet e aveva garantito per lui, definendolo un fedelissimo ai principi costituzionali. Sarebbe stato ripagato duramente per quell’errore terribile, quando Pinochet prese il potere con la forza e un anno dopo lo fece saltare in aria nel suo esilio di Buenos Aires, insieme alla moglie.
Questo era il clima in cui lavoravo, cercando di capire se quell’esperimento politico di Salvator Allende avrebbe resistito a tutte quelle tensioni, in un subcontinente, dove l’equilibrio politico era incerto ovunque.
Lasciai il Cile alla fine della mia inchiesta con un grande senso di angoscia, non certo perché avevo doti di preveggenza, ma tutti aspettavano quello che sarebbe successo l’11 settembre, quando il golpe partì da Valparaiso, la bella città sul Mare Pacifico, dove a rivoltarsi per prima fu la Marina, subito seguita dall’Aviazione che mandò i suoi aerei sulla Moneda.
Nessuno, però, poteva prevedere la violenza del golpe, la ferocia di Pinochet Duarte, con l’assalto armato al palazzo del governo, il mite presidente Allende con il casco in testa, che imbracciava il mitra, dono ben più che preveggente di Fidel Castro, e che poi per impedire una specie di guerra civile si suicidò dentro al palazzo.
Mi raccontarono che quell’11 settembre di 50 anni fa il fiume Mapocho, che scorre in mezzo alla capitale, era tinto di sangue per le carneficine commesse dai militari, che uccidevano chi faceva resistenza o trasferivano gli altri nel grande Stadio Nacional, trasformato in un grande carcere e anche nel simbolo della presa di potere di quel generale con gli occhiali scuri, la divisa grigia che avrebbe messo il Cile sotto il tacco militare per lustri e lustri.
Cinquanta anni sono tanti e la storia ha girato molto, non certo solo in Su America. Eravamo 16 anni prima della Caduta del Muro di Berlino e 11 anni dopo i missili sovietici a Cuba, la Cortina di ferro era impenetrabile e il mondo diviso.
Erano anche 28 anni prima di quell’altro 11 settembre che si ricorda , quello delle Torri Gemelle e dell’ ”America sotto attacco”.
Per me il Cile è sempre rimasto una ferita anche dopo, quando piano piano il ricordo di quel golpe è andato sfumando, mentre gli “Inti Illimani”, i cantori di quella storia, continuavano a suonare le loro struggenti note andine: “El pueblo unido jamas sera vencido!!!”