Tante incognite incombono sul futuro della martoriata terra palestinese nella ore in cui l’accordo fra Israele e Hamas è entrato in vigore, pur con tre ore di ritardo e già le truppe israeliane hanno iniziato il ritiro da alcune zone.
C’era stato un primo intoppo che ha provocato il ritardo. Hamas non aveva ancora fornito, all’ora prevista, la lista dei 33 ostaggi che dovrebbero essere liberati da oggi domenica 19 gennaio in cambio di circa 1.900 palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane.
Il ritardo era dovuto, ha detto Hamas, a “ragioni tecniche”, ferma restando la volontà di procedere con l’intesa.
In attesa della lista Israele ha continuato a bersagliare Gaza, causando altri 13 morti.
Ecco la sintesi offerta da Reuters.
Cessate il fuoco in vigore dalle 09:15 GMT (11:15 ora locale).
Gli ostaggi che saranno rilasciati domenica sono Romi Gonen, Doron Steinbrecher ed Emily Damari.
Il ministro della sicurezza nazionale israeliano di estrema destra Itamar Ben-Gvir si dimette per l’accordo. La maggioranza su cui si basa il governo Netanyahu in Parlamento è così ridotta a 2 deputati.
Sull’accordo pesa la volontà del neo presidente americano Donald Trump di chiudere la guerra in Medio Oriente alla vigilia del suo insediamento alla Casa Bianca. Avere la pace in Palestina e Libano darebbe maggiore impulso allo sforzo di Trump di imporre la pace fra Ucraina e Russia secondo i desideri del suo burattinaio Putin.
Su Gaza pesa la politica interna di Israele
Pesa anche però, in senso negativo, la situazione politica interna in Israele, con l’estrema destra che minaccia di fare cadere il governo di Benjamin Netanyahu se la guerra non riprenderà.
Il partito dei coloni vuole solo una cosa: deportare un bel po’ di palestinesi e insediare nuove fattorie ebraiche a Gaza. Caduta del Governo per Netanyahu può voler dire la prigione se sarà giudicato colpevole di corruzione nel processo penale appena iniziato a Tel Aviv.
Ci sono, scrive Amicai Stein sul Jerusalem Post, “importanti rischi politici”.
Il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, che si è dimesso dal governo, e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, che ha minacciato di fare lo stesso, “hanno tracciato una linea dura: senza un ritorno alla guerra, l’attuale governo perderà la sua legittimità a governare”.
“Descrivetelo come un quadro, non come un accordo”. Questa direttiva, inviata ai ministri israeliani dal segretario di gabinetto prima delle interviste con i media, riassume l’attuale strategia del primo ministro Benjamin Netanyahu.
Netanyahu, aggiunge Stern, ha cercato di rassicurare il suo gabinetto, affermando durante la riunione di governo di venerdì, “Ho insistito sul fatto che potremmo tornare in guerra con il sostegno o la mancanza di opposizione del presidente degli Stati Uniti”. Ha aggiunto, “Trump ha dato il suo sostegno a questo approccio e se ci dicono ‘no’, lo faremo comunque”. Queste osservazioni riflettono i tentativi di Netanyahu di affermare che Israele mantiene la sua autonomia e determinazione, anche sotto l’occhio vigile del suo alleato più importante.
L’incertezza, prosegue Stern, si estende oltre i confini di Israele. La doppia personalità del presidente Trump, quella di autoproclamato “affarista” che cerca di porre fine alle guerre e quella di alleato degli obiettivi militari di Israele, potrebbe influenzare il processo decisionale. Trump sosterrà un’operazione su vasta scala per smantellare Hamas o prevarrà la sua avversione per i conflitti prolungati?
Governo a un bivio
Mentre il cessate il fuoco prende piede, il governo di Netanyahu si trova a un bivio. Le prossime settimane determineranno se questo “quadro” porterà a una ripresa delle ostilità o segnerà la fine della campagna militare di Israele a Gaza. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che la posta in gioco per Netanyahu, la sua coalizione e la sicurezza di Israele è più alta che mai.