Meloni nella morsa. C’è un ritornello che si ripete all’infinito in certa politica ed ha come unico obiettivo il presidente del Consiglio. Il solo verbo che questi signori conoscono non ha sinonimi, è “criticare”.
Dunque, se la premier convoca i ministri del suo “Gabinetto” il primo maggio, Maurizio Landini ed i suoi fedelissimi seguaci gridano allo scandalo perché quel giorno è sacrosanto, scherziamo: è la festa dei lavoratori.
Allora dovrebbero essere scomunicati i poliziotti, i carabinieri, gli agenti della Guardia di Finanza oltre, manco a dirlo, i giornalisti che lavorano in tv, sui social, nei quotidiani on line. Tutto va bene per il segretario della Cgil, tranne gli uomini e le donne che debbono mandare questo paese nel miglior modo possibile.
Alla fine della riunone, che nonostante le grida della minoranza, raggiunge buoni risultati, Giorgia Meloni manda un messaggio in tv a tutti gli italiani, spiegando in modo semplice, quel che si appresta a fare il governo.
Apriti cielo: l’accusa non ha vie di mezzo. “La Meloni evita la stampa, ha paura delle domande cattive, non cade nel tranello dei media perfidi che difendono i princìpi sacrosanti della democrazia”. Se al contrario si fosse presentata davanti ai giornalisti, il refrain sarebbe stato identico, parole diverse, ma il succo del problema identico. “Vedi, ha risposto ai primi interrogativi posti magari da redattori amici, poi se l’è svignata con la scusa che aveva altri inpegni”. Niente di nuovo, è già successo, la musica non cambia mai.
Giorgia Meloni parla al termine del meeting del cuneo fiscale (ridotto del sette per cento), della riduzione delle tasse ed i sindacati insorgono guidati dal solito Landini. Non vogliono sentir ragioni: “Sbaglia, racconta frottole, illude la gente povera perché alla fine del mese non sa come arrivarci”.
Risponde a mezza bocca il ministro Giancarlo Giorgetti, responsabile del dicastero dell’economia: “Ma questi che cosa vogliono? Non riescono mai a spiegarlo. Gridano e basta”.
Insomma, l’argomento potrebbe avere risvolti diversi, ma il verbo è sempre lo stesso. Diceva De Coubertin: “L’importante è partecipare”. Per l’opposizione l’importante è mettere sotto accusa il presidente del Consiglio anche quando non c’entra niente ed è magari in Inghilterra per una visita ufficiale con il premier Rishi Sunak.
A Roma il governo viene battuto per l’assenza (questa sì imperdonabile) di 45 parlamentari e la colpa di chi è se non della Meloni che doveva pedinare onorevoli e senatori per trasferirli di forza a Montecitorio?
A Roma c’è un vecchio slogan degli ultras della curva sud giallorossa che, quando gli avversari vanno sotto e perdono le staffe, gridano all’unisono con quanto fiato hanno in gola: “Nun ce vonno sta”, come a dire avete “beccato” è inutile che ve la prendiate.
La sinistra più oltranzista, con in testa Eddy Schlein, Maurizio Landini e nel suo piccolo Matteo Salvini, non ammettono la sconfitta o, forse, l’ammettono perché la matematica non è un’opinione ed i numeri non si discutono.
Giorgia Meloni, però, ha un assillo personale che, malgrado i rimproveri, non riesce a sanare. I suoi più stretti collaboratori (ed anche gli altri) parlano troppo, dando un assist agli avversari di iniziare la polemica. Ma la pubblicità, come dire la vetrina, fa gola e vedersi in tv o sui giornali dà alla testa a chi appare. In ugual modo gli attori se non hanno l’applauso o i giornalisti se non appongono la loro firma in calce ad un articolo che ha avuto una grossa eco.
Il premier dovrebbe mettere sul suo tavolo a Palazzo Chigi un vecchio detto napoletano che suona così: “A meglio parola è chella che nun se dice”. Chiaro il concetto?