Ora, si può essere a favore dei migranti o contro. Ognuno è libero di avere le proprie idee, ci mancherebbe. Però, prima bisogna chiarire se chi sbarca è un clandestino o no. Perché un conto è venire in Italia e inserirsi nel nostro Paese trovando un lavoro: un altro è sbarcare pagando gli scafisti e magari mettersi al servizio della mafia.
È un problema di non poco conto che dovrebbe avere una sola voce per il futuro dell’Italia. Invece, avviene l’esatto contrario, cosicchè la “vexata quaestio” è lontana da una risoluzione. Ce n’è per tutti i gusti, trovare un denominatore comune è alquanto pericoloso. Prova ne sia il lungo processo che ha visto per protagonista il ministro Matteo Salvini. Era accusato di aver tenuto “prigionieri” su una nave decine di migranti e per questo il pubblico ministero aveva chiesto per lui una condanna esemplare: sei anni di detenzione.
Le cose sono andate diversamente e, alla fine il vice premier del governo è stato assolto perché “il fatto non sussiste”. Ragione, torto? Le sentenze non si discutono, si sente dire spesso da destra e sinistra.
Non è così purtroppo ed ogni volta che i giudici si pronunciano in un processo politico, gli animi si infiammano e le polemiche divampano. È nella logica delle cose: maggioranza e opposizione cercano di tirare acqua al proprio mulino. Diversamente, se è un magistrato, meglio un pubblico ministero, a pronunciarsi nel merito. E ancora più sorprendente lo è, se a usare certe espressioni è la pubblica accusa che in quel procedimento era “magna pars”, cioè colui il quale aveva diretto le indagini arrivando alla conclusione di una richiesta di condanna.
Non bisogna mai dimenticare il principio della “terzietà” di un giudice. È necessario, diremmo obbligatorio, essere super partes, cioè non essere tirati per la giacchetta solo perché hai simpatie, più o meno velate, per una forza politica. Tanto per non essere fraintesi, aggiungiamo che lo stesso principio dovrebbe valere per chi fa informazione. Raccontare i fatti punto e basta. Sarà poi chi legge o chi ascolta a trarne le dovute conseguenze.
Purtroppo, invece, spesso e volentieri non è così e anche nella nostra professione esistono i Guelfi e i Ghibellini. Non va assolutamente bene perché se il lettore si accorge di questo marchingegno finirà col perdere la fiducia e a disinteressarsi del tutto di ciò che avviene attorno a lui.
I primi a dover seguire correttamente e senza sbavature questa regola sono i magistrati e per questa ragione rimaniamo perplessi quando leggiamo su un giornale di estrazione cattolica le dichiarazioni del pubblico ministero del processo in cui era imputato Matteo Salvini.
Il magistrato in questione si chiama Luigi Patronaggio ed è stato proprio lui a chiedere per Salvini una condanna esemplare: sei anni di prigione. Il tribunale lo ha smentito assolvendo il segretario della Lega, all’epoca dei fatti ministro degli Interni.
Dovrebbe scendere il silenzio assoluto: i primi a doversi cucire la bocca dovrebbero essere proprio coloro che debbono giudicare. Al contrario, in questo caso Luigi Patronaggio non si è trattenuto. Commenta: “Dopo l’assoluzione dell’attuale vice premier, questo (cioè l’Italia ndr) non sarà più un paese accogliente e rispettoso dei diritti”.
Come la mettiamo con i milioni di stranieri che vivono tranquillamente in Italia? E magari hanno fatto nascere i propri figli qui da noi perché si trovano benissimo? Andiamo a chiedere loro se l’Italia non è un paese accogliente, magari sia lo stesso pubblico ministero a farsi un esame di coscienza e a porre a questi “stranieri” l’interrogativo che ha voluto mettere in bella mostra lasciandosi intervistare.
Non vogliamo che chi legge possa ritenerci di parte, non abbiamo mai oltrepassato il limite che ci impone la professione. Vorremmo però che lo stesso principio valesse per coloro che debbono giudicarci. Dov’è finito il Csm cioè l’ordine di auto governo e auto controllo della magistratura?