Le morti bianche di Calenzano. Una proposta equa: tutto quello che accade nel recinto aziendale dia diritto al risarcimento, di chiunque sia la responsabilità.
La campana delle morti bianche ha suonato a Calenzano. Gli italiani conoscono già i prossimi passi: i sequestri, le perizie, il palleggio delle responsabilità. Non si tratta di una questione “politica” ma di una cosa ben più seria, perché non esiste legge che sia mai stata in grado di contenere l’epidemia degli incidenti sul lavoro, in Italia, in Europa e nel mondo.
Non servono le manifestazioni sindacali, perché non si può scioperare contro la grandine. Ti può capitare di sentire qualche intellettuale impegnato che denuncia la pericolosità degli insediamenti industriali vicini o dentro quelli urbani.
Dovrebbe ricordare che le acciaierie di Taranto, Cornigliano o Bagnoli, le raffinerie o i depositi sparsi nel territorio, sono il risultato di lotte sindacali all’ultimo sangue, di gente che vedeva nel lavoro la solapossibilità di riscatto. Quando fu costruito l’impianto di Taranto, potevi leggere sui giornali dichiarazioni trionfalistiche dei governi, mentre i sindacati triplicavano le tessere. Le case di Tamburi erano il risultato di impegni politici a favore del mondo operaio.
Quando la Shell/IP decise di chiudere la raffineria di La Spezia, vi furono manifestazioni di protesta dei lavoratori che bloccarono la città. Tra questi manifestanti c’era mio fratello, un tecnico della Shell che era considerato “persona privilegiata”perché riusciva a mantenere i figli agli studi. Da allora la stupenda cittadina rivierasca non si è più ripresa e deve l’attuale boom economico al turismo di massa: per avere aria pulita, gli spezzini hanno svenduto le proprie bellezze naturali.
Prima di Calenzano
Oggi scopriamo che i fumi delle acciaierie e i miasmi delle raffinerie hanno provocato morte e malattie ed è diventato di moda criticare le vecchie generazioni politiche e sindacali che avevano consentito quegli insediamenti. Il numero più importante di morti sul lavoro è stato quello causato dall’amianto, un prodotto sviluppato dall’Eternit utilizzato in edilizia come materiale da copertura o come coibentazione di tubature.
Sapete come è andata a finire? Che gli inventori e produttori svizzeri se la sono cavata e che i costi sociali sono stati pagati dalle aziende che avevano utilizzato quei prodotti e dai proprietari di case che hanno dovuto eliminare ogni traccia di scoria per il successivo trentennio, fino ai nostri giorni. Si è trattato del vero grande business dell’amianto, pagato dai cittadini comuni.
Qual è stata l’incongruenza? Che, all’epoca, i pompieri e gli uffici comunali non ti lasciavano licenze edilizie industriali o civili se non utilizzavi quei prodotti, considerati gli unici affidabili sul mercato.
Il dramma delle morti sul lavoro
Il dramma dei morti sul lavoro non lo risolve neppure la Magistratura. Vi ricordate l’incidente alla acciaieria Tyssen di Torino, che causò sette morti? L’incendio del 2007 ha trovato condanne definitive solo dopo dieci anni e nel 2008 i familiari delle vittime dovettero accettare risarcimenti per rinunciare al diritto di costituirsi parte civile nel processo successivo.
In tutti i tre gradi del processo, “bande” contrapposte di tecnici si erano accapigliate per dimostrare che le cause dell’incendio non dipendevano da difetti degli impianti o dalla mancata manutenzione, bensì dalla scarsa professionalità degli addetti. Alla fine i dirigenti tedeschi se la cavarono con la condanna per responsabilità “colposa”.
Il caso di Calenzano, riguarda lavoratori “esterni”: il problema sarà quello di stabilire se il dramma sia derivato da un errore umano del “trasportatore” o dall’inadeguata manutenzione dei depositi industriali. La risposta definitiva la potrà dare la Magistratura nei tempi “ordinari” dei tre gradi di giudizio.
L’altro filone di discussione sulle morti bianche è collegato al “sommerso”: sarebbero le aziende marginali che evadono i costi fiscali e contributivi, ad assumere la mano d’opera più esposta ai rischi del “mestiere”, per la più modesta professionalità.
Nel caso di Calenzano non è stato così: gli appalti sono stati affidati dalla più grande multinazionale italiana che ha certo rispettato tutte le norme e i regolamenti interni vigenti. Sarà stata fatta una gara e l’impresa aggiudicataria avrà dovuto garantire mano d’opera qualificata (accertata dai tecnici della stessa Eni) quale prerequisito per presentare l’offerta.
Inoltre, il servizio appaltato, il trasporto della benzina, non rientrava nel business dell’appaltante e rispondeva a logica imprenditoriale che si ricorresse ad un fornitore esterno. Il caso di Calenzano non deriva quindi dal fatto che la grande azienda volesse risparmiare sui costi o non volesse farsi carico di un numero eccessivo di dipendenti, come accade spesso nel settore dell’edilizia, nel cui ambito sono sorte miriadi di imprese senza azienda che appaltano la totalità del lavoro a ditte esterne, e che detengono il record degli incidenti sul lavoro.
Gli amministratori che vogliono fare bella figura nel breve periodo, ricorrono spesso alla tecnica di non effettuare i lavori ricorrenti di manutenzione, con la conseguenza che, trascorso il periodo del loro mandato, gli impianti sono da sostituire. Un modo come un altro per dare i massimi dividendi agli azionisti attuali a danno di quelli futuri. I Pm di Genova hanno addebitato proprio questo ai responsabili della società che ha costruito il ponte Morandi.
Un ruolo importante per limitare le morti sul lavoro dovrebbe essere attribuito ai sindacati. Sentiamo ora che a Calenzano alcuni dipendenti avevano da tempo scoperto falle vistose nella manutenzione ordinaria degli impianti, così come era risultato nel processo Tyssen. Per quale ragione nessuno era intervenuto per tempo?
Non voglio aprire spunti di discussione considerati “antisindacali”. E’ tuttavia un fatto che le rappresentanze aziendali dei lavoratori sono spesso in difficoltà nel denunciare le presunte carenze del “padronato”. Le grandi aziende, come la vecchia Fiat, avevano rapporti privilegiati con i sindacati e Mani pulite aveva messo in luce i finanziamenti a queste organizzazioni, che si salvarono dalla mattanza giudiziaria basata sul falso in bilancio, perché non erano tenute a presentare regolari rendiconti pubblici della propria gestione.
Le morti bianche, riaprono l’antico conflitto tra leggi ed economia. I diritti dei lavoratori hanno ottenuto un riconoscimento legislativo unanime; tuttavia questo riconoscimento non rappresenta ancora una garanzia di efficacia. Le violazioni sono diventate sistematiche e flagranti, nonostante l’aperta condanna delle leggi e della morale. Cos’è che minaccia maggiormente le nostre democrazie, l’aggiramento delle regole da parte di tanti imprenditori o la vuota fraseologia di chi non propone rimedi?
Alla fine di queste considerazioni, da semplice uomo della strada, un rimedio o forse anche solo un “palliativo” mi sento di suggerirlo. Anzitutto, mi domando: che differenza fa se una persona muore per un proprio errore o per carenze del datore di lavoro? Perché le famiglie devono aspettarsi un diverso risarcimento in un caso o nell’altro e devono sottostare alla mannaia e ai tempi della Magistratura?
E’ un fatto che la distribuzione dei dividendi agli azionisti, può verificarsi anche quando un bilancio è in perdita, utilizzando le riserve. Perché analogo rimedio non è previsto per risarcire le famiglie dei morti sul lavoro? Basterebbe introdurre il principio che se un lavoratore muore nel perimetro dell’azienda, come nel caso di Calenzano, è la stessa azienda a doversi far carico dei risarcimenti sulla base di parametri prestabiliti, a prescindere da tutto il resto.
I grandi gruppi industriali che appaltano all’esterno i servizi, dovranno appostare a bilancio un “fondo riserva per le morti sul lavoro” da utilizzare in automatico in caso di incidente mortale. Non credo proprio che qualche azionista dell’Eni potrebbe urlare allo scandalo se la società mettesse sul piatto una ventina di milioni di euro per risarcire, immediatamente, le madri e i figli delle cinque vittime di Calenzano. Sarebbe questa una prova di civiltà, l’uscita dall’epoca delle barbarie che caratterizza ancora oggi il mondo del lavoro.