Mourinho, malgrado le sberle prese prima in Inghilterra e poi a Roma, si atteggia di nuovo e ancora a fare il personaggio, l’uomo che non eguali quando si tratta di studiare una partita. Ora si è trasferito ad Istanbul sulla panchina del Fenerbahce e non è cambiato di una virgola. Altezzoso, pieno di sé, uno sbruffone, insomma, che ha comunque ancora un gran seguito.
Una dote bisogna però riconoscergliela: si sa vendere come pochi altri nel campo in cui lavora. Lui è il verbo, l’uomo che non ha segreti nello sport che gli ha fatto raggiungere una fortuna. I soldi, in verità, non gli mancano e continua ad accomularli fin quando il popolo del football continuerà a credergli.
In Turchia lo hanno acclamato come un eroe, il salvatore di tutti i mali, capace di compiere quel salto di qualità che porterà il Fenerbahce ad essere la squadra più forte del Paese. Scudetti, più scudetti. Sarà vero? Solo il futuro risponderà a questi interrogativi. Comunque Mou è stato accolto come il “number one”.
Circostanza che da quel furbo che è ha preso subito al volo. “Questa maglia sarà la mia pelle”, ha urlato sommerso dalle grida dei tifosi. Parole che, più o meno, erano le stesse che aveva pronunciato quel giorno in cui fu presentato allo stadio Olimpico. La città eterna fu subito accanto a lui e i tifosi della curva sud cominciarono ad amarlo fin da subito.
Perchè era bravo? Aveva costruito in pochi mesi una squadra che avrebbe dominato il campionato italiano? Assolutamente no. La popolaità gli era data da quegli atteggiamenti gigioneschi che incantano i fans di tutte le compagini: quel prendersela sempre con l’arbitro, quelle parole assai sferzanti in conferenza stampa, quell’incitare la folla quando il risultato non era quello che tutti si aspettavano.
Nella comunicazione, Mou è un genio o quasi: riesce subito ad entrare nel cuore degli aficionados. Fin dai tempi felici che trascorse a Milano, guadagnando con l’Inter tre titoli in una stessa stagione. Quando arrivò davanti al gruppo dei cronisti che volevano domandargli ogni cosa, non si scomponeva, mai un aggettivo esagerato e quando un collega gli chiese perché era tanto prudente rispose d’un fiato: “Mica sono un pirla”. Forse l’unica parola italiana che aveva imparato subito a memoria.
Ugualmente fece a Roma, nonostante in Inghilterra fosse cominciato il suo declino. Ammetterlo? Mai. Un “number one” non viene mai meno ai suoi princìpi. “Sono venuto nella città eterna ed eterna sarà anche la vostra, anzi la nostra squadra”. Che altro aggiungere? Lo stadio sempre pieno anche quando all’Olimpico scendevano squadre non blasonate. Un tripudio di folla con cui il mister dialogava con cenni. Con gesti comprensbili, magari anche con qualche sostantivo facilmente intuibile dal labbiale.
La classifica? Era quella promessa? Superiore, in grado di battere tutti gli avversari? Un interrrogativo a cui possono facilmente rispondere i risultati. Ma non è stata questa la principale circostanza che ha fatto vacillare la fama di Mourinho. La verità era che la Roma non solo giocava male, ma annoiava il tifoso che era andato ad assistere a uno spettacolo. Tik, tok continuo, una infinità di passaggi spesso arretrati, la difficoltà ad arrivare nell’area di rigore degli ospiti.
Il regno del “number one” non arretrava di un passo, la sua popolarità indiscussa. Fin quando i proprietari americani dei giallorossi non presero la decisione di dargli il ben servito. Rivoluzione della curva allora? No, perché la società era stata più furba di Mourinho, chiamando sulla panchina giallorossa Daniele De Rossi, una vecchia-giovane gloria, coetaneo o quasi dell’intoccabile Francesco Totti. Licenziato Mourinho? “Neanche per idea”, rispondeva il coach. “Solo allontanato da persone che non sanno che cosa sia il calcio. Per carità: degli incompetenti”.
Questo è il personaggio che si è ora trasferito ad Istanbul ripetendo gli stessi concetti di sempre. Con una voglia matta di vendicarsi, di sbugiardare chi lo ha ceduto, di dimostrare a lor signori chi è veramente Mourinho. Già, chi è in concreto l’uomo venuto dal. Portogallo? “Una mezza tacca che ha dimenticato cos’è il pallone”, sostengono alcuni. “Un fenomeno”, rispondono altri. Da che parte è la ragione?
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