Genova aspetta le elezioni maledette, cronaca del declino dalle sette chiese a zero candidati. Elezioni maledette quelle che aspettano la Liguria dopo la caduta di Giovanni Toti, che oramai la Procura italiana e perfino quella Ue seppelliscono di nuove accuse, nuove intercettazioni, nuovi processi
E un accerchiamento che riduce l’ex presidente nella sua stanza a scrivere un maxi memoriale come un Silvio Pellico dell’anno Duemila.
Elezioni maledette perché trovare i candidati giusti, sia per l’una che per l’altra coalizione, ed ora anche per la appena annunciata partecipazione del superdestro Alemanno, non è semplice.
Elezioni maledette perché svelano la grande carenza della classe dirigente genovese e ligure, sia soprattutto quella politica.
Ma anche quella della società civile, fatta di imprenditori, dirigenti, intellettuali, sindacalisti, scienziati, liberi professionisti.
Dove nelle Repubbliche passate spesso accadeva che la politica di un tempo, fatta di partiti veri e di ideologie, pescava i nuovi leader.
Basti pensare a figure come Beppe Pericu, il sindaco migliore di Genova moderna, avvocato, professore di diritto amministrativo.
O lo stesso Adriano Sansa, magistrato, pretore d’assalto. O i tanti che correvano, se non come numeri uno, almeno nelle liste comunali, regionali, provinciali, parlamentari. Estratti da un mondo esterno alla politica pura quando questa era entrata in crisi con Tangentopoli.
La Liguria candidò alla Camera, tra gli altri, perfino un Gino Paoli, allora cinquantenne nelle fila del Pci e dopo il presidente degli Industriali Stefano Zara sempre nelle fila della sinistra o postsinistra piddima.
Mentre la Destra trovò un imprenditore dei trasporti come Sandro Biasotti, battezzato presidente di Regione da Berlusconi in persona, che lo criticò solo perché aveva la barba ed era fuori dai canoni glamour della nascente Forza Italia.
Oggi invece nisba: cercare un candidato a destra, a sinistra, al centro significa cercare tra le fila delle vecchie guardie di partiti in sofferenza.
Come accade al Pd, che lancia Andrea Orlando, uomo del vecchio apparato PCI-PDS -DS -PD, nato nei corridoi di Botteghe Oscure, per quanto ex pluriministro, uomo di sagacia politica e sobrietà fin eccessiva.
O significa seguire la scia del totismo, accerchiato a destra e, quindi, puntare sui suoi fedelissimi, come la ex giornalista Rai e Mediaset di cronaca nera, Ilaria Cavo, la prediletta, oggi parlamentare di”Noi moderati”, o come Marco Scajola, nipote di cotanto leader come Claudio, l’ex superministro berlusconiano, assessore attuale non certo con il tocco politico dei suoi avi.
E questi sono solo, con altri molto chiacchierati, i possibili candidati presidenti.
La politica di oggi, sfatta e molto gattopardesca e trasformista in una frenesia di visibilità che smentisce qualsiasi livello di capacità personali, di curriculum degno, di esperienze decenti, sforna legioni di pretendenti a fare il salto verso la Regione, i suoi ruoli ( ed anche i suoi emolumenti) in auto promozioni un po’ imbarazzanti dalle fila dei consigli comunali, perfino circoscrizionali.
Elezioni maledette , quindi, che mostrano tanti aspetti della nostra vita democratica in crisi e sopratutto la separazione della società civile, punteggiata dalla assenza di leader.
C’era una volta un percorso che potremmo definire delle “sette chiese”, attraverso il quale si costruivano le candidature importanti per i ruoli istituzionali che avevano un peso complessivo nella città o nella regione.
Quel percorso, magari partiva proprio dal ventre profondo dei partiti storici, che avevano rigide gerarchie, carriere pesate in senso millesimale nelle promozioni da un ente all’altro, prima dell’investitura finale, benedetta a Genova, a Roma e spesso anche dentro a queste sette chiese.
Il partito ti sceglieva e poi ti “mostrava” anche con un certo orgoglio-pudore all’esterno.
Dobbiamo rispolverare come, per esempio, ogni candidato scelto dalla Dc, ma non solo, fosse poi portato al soglio di sua Eminenza il cardinale Giuseppe Siri, denominato allora cardinale-principe, nella grande sala di piazza Matteotti.
Qui il prelato, due volte papa mancato, accoglieva il prescelto tra i ritratti dei suoi predecessori, concedeva la mano da baciare con l’anello da pescatore di uomini, faceva scintillare la croce d’oro al petto, dono dei fedeli del Sudamerica e poi approvava con il cenno del capo e intratteneva il candidato in un circolare scambio di idee, nel quale più che i sacramenti in discussione c’erano il destino della città e della Liguria, condivisi o magari non del tutto.
Il prescelto usciva rinfrancato dal colloquio più che dalla benedizione.
Non che i partiti della sinistra storica usassero lo stesso percorso, perché nel loro caso tra le sette chiese c’erano, invece, le cattedrali del sindacato, i segretari generali nelle loro sedi, che allora spesso erano barricate molto munite contro il capitalismo e il potere del centro destra o anche del centro sinistra. E allora il compagno indicato , ovviamente in modo democratico, discuteva con personaggi come Michele Guido o con i grandi segretari nazionali , Lama, Benvenuto, Marini, in arrivo da Roma, in una ottica che non era mai ristretta ai confini.
Eravamo o no la capitale dell’Iri e del porto pubblico più importante nel Paese? E chi si chiamava a guidarla?
Un po’ tutti i candidati erano introdotti in quel gioiello che era la sede dell’associazione Industriali, nel palazzo Doria di via Garibaldi, dove sotto gli affreschi dello Strozzi c’era un confronto con i capi dell’imprenditoria.
Che non erano gli sparuti personaggi di oggi, ma veri capitani di impresa, a incominciare dagli armatori, grandi nomi delle grandi imprese del tempo che fu, oggi volatizzati o quasi.
E non si parlava come oggi di grandi opere da fare con i capitali del Pnrr o con i fondi europei, ma di grandi stabilimenti da salvare o rilanciare, di un porto con immani conflitti interni, potentati e monopolii che generavano conflitti, scioperi colossali.
Insomma il candidato, i candidati avevano il compito di passare dentro a questi cerchi di fuoco, oltre che dentro le sale e le anticamere con incenso e acqua santa, per misurare se stessi in un contesto ampio, ricco e frastagliato.
Poi venne un’epoca nella quale da quei mondi così diversi spuntavano personaggi che sceglievano di intervenire ben dentro i problemi e le contese che erano in ballo nelle elezioni.
Gente come Riccardo Garrone, il petroliere, che fu tanto geniale da trasformare le sue aziende nelle energie rinnovabili, il quale entrava in campo con proposte choccanti che mettevano i partiti e in candidati quasi spalle al muro con i i suoi progetti.
Indicò per primo la trasformazione dell’ Italsider in Disneyland, prevedendo il ridimensionamento della Siderurgia e indicando una strada che poi fu imboccata da Parigi.
Costruì Viva Genova, un progetto per smantellare le sue raffinerie in Valpolcevera e sostiturle con altre attività che in parte sono quelle in arrivo da allora.
Si candidò perfino in prima persona nel Pri, ma non fu fortunato in una epocale elezione che schierava nello stesso collegio perfino Guido Carli, ex Banca d’Italia, l’uomo dell’Oscar della lira. Ambedue sconfitti dalla partitocrazia ancora vincente.
Ma che campagne elettorali erano quelle rispetto alle scalate di oggi? Quanto diversa è la politica di oggi anche a livello locale, dove la pesca nei partiti, movimenti ed ora anche nel cosidetto civismo diventa un esercizio fatto di dinieghi, dai pochi che “potrebbero” e disponibilità a manica larga di chi cerca sistemazioni, visibilità, fama anche un po’ volatile dei tempi moderni.
Le sette chiese di oggi sono ben diverse e per colpa di nessuno. Ma dei tempi, dei valori, dei capisaldi oramai dissolti nell’ordine costituito.
Le porte della cattedrale, quella vera, sono addirittura chiuse sui grandi saloni di quei tempi. Il cardinale-principe oggi è un vescovo-frate che vive in convento. Frequenta la città molto meno il nostro bene amato monsignor Marco Tasca.
Tasca e un francescano puro, figlio ecclesiastico del papa argentino, non certo reticente ma non protagonista dell’ordine temporale, come lo erano i suoi predecessori e sopratutto quel cardinale principe Giuseppe Siri, per finire con il cardinale emerito di oggi, il suo predecessore, Angelo Bagnasco, ex presidente Cei e dei vescovi europei, che mostra ancora le sue insegne porpora cardinalizie nella città, ma è ben misurato nelle sua funzioni di emerito.
Distante dal vescovo Tasca e dal suo differente modo di amministrare la sua Diocesi.
I cosidetti corpi intermedi, che una volta erano la consultazione prima dei candidati, il sindacato e Confindustria vivono i tempi di oggi, nella loro riduzione di presenza e di peso in un processo ineluttabile.
Non possono più fare da intermediazione alle scelte, un po’ per debolezza congenita, per casi rari di presenze forti nelle loro fila, un po’ per questioni interne prevalenti.
Basti pensare alla grande occasione perduta di avere un presidente di Confindustria nazionale genovese, grazie alla lotta fratricida tra Edoardo Garrone, figlio di quel Riccardo e Antonio Gozzi, il presidente Duferco, Federacciai, che si sono eliminati a vicenda nella corsa per Viale dell’Astronomia.
Genova avrebbe avuto, sessanta anni dopo Angelo Costa, un leader industriale in casa, grande sponda per molte partite del suo sviluppo e, invece, ora quegli alti saloni, che non sono più nei nobili palazzi di via Garibaldi, si trovano un po’ alla periferia delle decisioni politiche.
Elezioni maledette, quindi, nel senso che non offriranno, salvo sorprese imprevedibili, grandi personaggi e scontri densi di nuovi contenuti.
Per ora la battaglia del cosidetto post totismo è un po’ una schermaglia bassa di tante figure secondarie, che cercano spiragli e appoggi per emergere e correre nella sfida che per Genova e la Liguria è fondamentale, nello scatafascio dei processi penali, ma anche nel seguito dei tanti miliardi per le grandi opere piovuti in Liguria e che bisogna spendere bene.
Senza neppure la possibilità di andare in una delle sette chiese a farsi benedire.